Buonconte, il Guerriero di Montefeltro (2ª parte)
25 Ottobre 2007Jus Primae Noctis – Bruno Normanno
25 Ottobre 2007A sud l’influenza fiorentina lambiva il lago Trasimeno e le terre intorno a Montepulciano, a ovest il litorale tirrenico era controllato dalle sponde del lago di Massaciuccoli fino alle coste di Piombino mentre, a nord ed ovest, la montagna pistoiese e la dorsale appenninica serravano il territorio dominato da Firenze, che poteva guardare le teste delle valli del Santerno, del Lamone e l’alta Val Tiberina. Della Toscana restavano indipendenti le città di Lucca e Siena, quest’ultima con un vasto dominio che confinava con il territorio fiorentino lungo le colline metallifere, il Chianti e la Val di Chiana.
Firenze dominava un territorio relativamente piccolo però mal difendibile, nonostante fosse circondata da realtà politiche vicine ancor più deboli quali città-stato o piccole signorie, doveva preoccuparsi di mantenere un saldo controllo sul territorio soggetto ed essere pronta, in caso di guerra guerreggiata, ad organizzare una forza
armata nel più breve tempo possibile onde far fronte ad eventuali invasioni nemiche. Le vie di penetrazione dei potenziali eserciti invasori passavano attraverso i passi appenninici, scendevano lungo le valli dei fiumi, nascevano nei piccoli porti della costa tirrenica. L’incerto confine collinare con la repubblica di Siena, l’ampia Val d’Arno verso Lucca e le vaste pianure di Val di Chiana erano luoghi esposti a incursioni e scorrerie che, come quelle aragonesi e pontificie, trovavano appoggio nel vasto territorio controllato dalla repubblica di Siena, da sempre cordiale nemica di Firenze.
La situazione politica della penisola era dominata dall’oscillante equilibrio creatosi in Italia tra le maggiori potenze regionali: il ducato di Milano degli Sforza, la repubblica di Venezia e il regno di Napoli dove, dal 1442, la dinastia aragonese di Alfonso V il Magnanimo aveva estromesso il dominio angioino. Lo stato della Chiesa lottava per affermare il potere temporale del papa nel vasto Patrimonio di San Pietro, muovendo guerra alle piccole e grandi signorie sorte ad opera dei maggiori condottieri della prima metà del secolo. Altri stati minori della penisola erano i ducati di Savoia, Ferrara, e Mantova, la repubblica di Genova; in Toscana quelle di Siena e Lucca; ulteriori piccole e piccolissime signorie frammentavano politicamente la penisola.
Lo stato fiorentino alla metà del Quattrocento faticava a sostenere la sua posizione in Italia; in Toscana, conquistata Pisa nel 1406, era cessata la fase di espansione che aveva segnato la storia del Comune di Firenze per tutto il secolo XIII e buona parte del XIV con frizioni continue, alterne alleanze e uno stato di guerra endemico contro le vicine città di Siena, Pisa Lucca e Arezzo. Sottomesse definitivamente le città di Pistoia, Prato, San Gimignano, Colle e, parzialmente, Volterra, Firenze si era trovata, nel corso del Trecento, a dover fronteggiare l’espansionismo della potenza lombarda dei Visconti che, a più riprese, aveva minacciato e finanche tentato di invadere i territori soggetti alla repubblica fiorentina. L’antagonismo con la potenza viscontea era continuato durante il Quattrocento con alterne fortune da entrambe le parti fino, per simbolizzare con una battaglia e una data, alla fortunata vittoria fiorentina di Anghiari del 1440 che vide le forze viscontee guidate dal condottiero Niccolò Piccinino battute nella pianura tra Anghiari e San Sepolcro. Esauritasi, non certo per virtù fiorentina, la minaccia proveniente dal nord, dal 1447 Firenze aveva dovuto cominciare a difendersi dalla grande potenza emergente del meridione: il Regno di Napoli. Alfonso d’Aragona, re di Napoli e di Sicilia, scatenò infatti a più riprese le sue forze contro Firenze. Negli anni 1447-1448 divampò una prima guerra portata in Toscana da Alfonso d’Aragona, seguita da una seconda nel 1452-1454, fino alla guerra degli anni 1478-79, proseguimento bellico della congiura dei Pazzi: il conflitto fu perseguito dalla politica di papa Sisto IV, alleato della monarchia napoletana e della repubblica senese e minacciò seriamente il governo del giovane Lorenzo il Magnifico.
L’instabile equilibrio della penisola si traduceva in una serie molteplice di alleanze tra le varie potenze italiane, determinate in vario modo ad allargare la propria influenza e di conseguenza impegnate nel contrastare i disegni politici d’egemonia altrui. Dopo la pace del 1480 con il Regno di Napoli la Firenze di Lorenzo il Magnifico si trovò impegnata nella guerra detta di Ferrara del 1482-84, il conflitto vide le forze della Chiesa alleate con Venezia e le repubbliche di Genova e Siena, contro una coalizione formata dal ducato di Ferrara, appoggiato dalle forze di Milano, Napoli e Firenze. Il conflitto fu combattuto lontano dal territorio toscano, così come le altre guerre che si accesero in Italia nell’epoca laurenziana, ad eccezione di quella del 1487 che vide impegnata la Repubblica di Firenze contro quella di Genova.
Nell’ambito di questo contesto cercheremo di focalizzare qualche dettaglio dei maggiori episodi bellici che segnarono la terra di Toscana nell’epoca di Lorenzo il Magnifico, cercando di analizzare quali fossero gli elementi costitutivi di un esercito rinascimentale e quale strategie e prassi belliche fossero adottate nell’epoca che va dal 1469 al 1492: la conquista di Volterra del 1472, la difesa di Città di Castello del 1474 e la guerra del 1478-79 detta anche “guerra dei Pazzi”, come episodi combattuti essenzialmente in Toscana, possono bastare a farci vedere con sufficiente chiarezza la dinamica della prassi guerresca.
“Pazzia bestialissima”
Con queste parole Leonardo da Vinci ebbe a definire la guerra, certo i clamori bellici possono irritare per la violenza che la guerra sottintende ma, anche limitandoci ad uno sguardo puramente estetico sul Rinascimento, difficilmente possiamo ignorare il fenomeno guerresco, anche solo considerando pittura e architettura (foto a destra: “Federico di Montefeltro”). Il Quattrocento è un secolo di conflitti fierissimi in tutta le penisola e la guerra era materialmente connaturata al sostentamento dei signori e delle loro corti. Federico da Montefeltro, il gran mecenate di Urbino, uno dei condottieri più richiesti del suo tempo, dalla guerra traeva la principale risorsa per sostentare la sua splendida corte; il suo ritratto fu dipinto da Paolo Uccello, così come il pingue Gentil Virginio Orsini di Bracciano fu ritratto da Antoniazzo Romano insieme al suo seguito di cavalieri e fanti , e lo stesso fecero altre decine di artisti per i tiranni rinascimentali, veri e propri signori della guerra che con questa avevano creato la propria fortuna La guerra non era un accidente sgradevole, ne un passatempo occasionale di fanatici, ma il mestiere dei principi rinascimentali; Federico da Montefeltro traeva dalle proprie terre il nucleo delle milizie che poi impiegava al soldo di chi ne facesse richiesta nella penisola e con questo assicurava al suo stato una sicura fonte di introito.
A Firenze, come ha notato acutamente Claudio Finzi: “I fiorentini rimasero sempre attoniti di fronte al fenomeno dello scontro armato; né cercarono di comprenderlo pur detestandolo. Cosicché esso restò loro sempre estraneo e misterioso. E questa fu alla lunga una loro grave debolezza, poiché le cose spiacevoli non scompaiono per il semplice rifiutarle.”. La Repubblica Fiorentina non manteneva un esercito stabile, ma la mancanza di una forza armata regolare non significava certo che lo stato dominato dalla città di Firenze e dalla sua classe dirigente fosse inerme. Vari erano i motivi che avevano influito su questo tipo di scelta dello stato fiorentino: innanzitutto la tradizione. Dalla fine del secolo XIII lo stato cittadino, affermatosi prima con la conquista del contado e poi temprato dalle dure lotte contro le altre città toscane, non faceva più affidamento sulla mobilitazione generale dei suoi abitanti, “popolo” e cavalieri; preferiva piuttosto affidare la difesa e l’offesa militare a piccoli nuclei di soldati di mestiere, affiancati da contingenti di fanterie scelte, formate in gran parte da specialisti quali balestrieri, pavesari e armati di lance. Già alla fine del Duecento l’esercito fiorentino era composto da gente di mestiere, parte ancora espressa dai ranghi delle proprie classi agiate e nobiliari ma affiancata sempre più dai costosi professionisti delle armi; guerrieri che furono arruolati di volta in volta in area franco-provenzale, catalana, francese, tedesca e financo inglese. Dalla prima metà del Trecento poi, dopo le pesanti sconfitte di Montecatini e Altopascio, lo stato fiorentino aveva decisamente rinunciato a schierare sul campo di battaglia un esercito basato sulle leve delle popolazioni urbana e contadina, cernendo solo piccole aliquote cittadine di specialisti, prevalentemente balestrieri. Gli abitanti del contado coprirono il ruolo subalterno di fanterie da vanga e zappa, il più delle volte impiegati come ausiliari nel trasporto di equipaggiamenti e materiali, oltre ai vari lavori di manovalanza quali sterro dei campi trincerati, scavo negli assedi, devastazione del territorio nemico.
La seconda ragione che, nel corso del tempo, aveva portato Firenze a fare gradualmente a meno di una forza armata stabile era senz’altro il costo esorbitante che un esercito regolare ed efficiente richiedeva: tasse e contributi straordinari “per amore della guerra” gravavano già in modo esoso sui cittadini fiorentini e il mantenimento di un esercito regolare avrebbe comportato una spesa costante che, nei periodi di pace, non avrebbe trovato giustificazione alcuna. Come terza ragione possiamo dire anche che i fragili equilibri politici fiorentini avrebbero mal tollerato la presenza di una forza militare permanente affidata necessariamente alla guida di un singolo condottiero, in grado di condizionare pesantemente le scelte politiche della città e di imporre in qualche modo la propria autorità, sostenuta dalle spade di guerrieri fedeli. Firenze aborriva una simile eventualità e, fin dai lontani tempi del duca d’Atene (cacciato da Firenze nel 1343), la rissosa oligarchia fiorentina si era guardata bene dall’affidare troppo potere a un capo militare, pur valente che fosse.
Nonostante il disamore per le armi dei fiorentini del Quattrocento, la necessità di mantenere una qualche forma di organizzazione militare aveva portato la città-stato di Firenze a creare solidi organismi che le permettessero di affrontare le contingenze belliche causate dalla politica. Secondo le parole di Michael E. Mallet che paragona la situazione fiorentina alla contemporanea veneziana, l’organizzazione militare fiorentina era fortemente centralizzata I Dieci di Balìa erano la magistratura cittadina che, in tempo di guerra, “aveva pieni poteri per la direzione della politica estera e la condotta della guerra”; ai Dieci si affiancavano altre due magistrature quali gli Ufficiali della Condotta, con mansioni amministrative e gli ufficiali addetti al Banco degli stipendiari, con funzioni di arruolamento e anche di reperimento dei denari necessari al pagamento delle truppe. I membri di ognuna di queste magistrature erano eletti per il breve termine di sei mesi, per tradizione radicata nella costituzione fiorentina e allo scopo di evitare che singoli personaggi accumulassero troppo potere nell’esercizio della carica. A uomini come Tommaso Soderini, Luigi Guicciardini, Bongianni Gianfigliazzi o Piero Minerbetti, tutti nomi di spicco dell’oligarchia cittadina, lo Stato delegava il compito di provvedere alla sua difesa e importante appare il ruolo che svolgeva il Provveditore dei Dieci di Balìa: “una figura ubiqua e particolarmente potente in materia di contatti con i soldati” che seguiva personalmente in campagna la condotta delle operazioni militari, affiancando lo stesso comandante in capo: i fratelli Jacopo e Luigi Guicciardini furono tra i protagonisti della guerra del 1478-79.
L’oligarchia che governava Firenze, dominante la famiglia Medici dal 1434, fu maestra nell’arte della diplomazia e uno stato virtualmente disarmato come quello fiorentino cercava di mantenere il minimo indispensabile di forza armata; in tempo di pace i guerrieri tenuti al soldo della Repubblica oscillavano tra i 1.000 e i 1.500 uomini; a differenza di Milano, Venezia e Napoli che mantenevano ormai veri e propri eserciti permanenti.
Firenze usava “fermare” un condottiero famoso a suo servizio con una forma particolare di contratto detto condotta in aspetto, sorta di condotta a mezza paga che impegnava il capitano ad accorrere al servizio della Repubblica in caso di bisogno; il condottiero fermato era spesso un membro della casata dei conti di Urbino, o di un’altra stirpe dei signori dimoranti oltre i confini della Repubblica: condottieri grandi e piccoli erano pronti a farsi assoldare e scendere in campo per Firenze in tutta la Romagna, nelle Marche, nel montuoso Montefeltro, nelle terre umbre e per gran parte della vasta Campagna romana, tutte realtà territoriali in teoria soggette al Patrimonio di San Pietro ma dove ogni piccolo tiranno era signore in casa propria.
Per il mantenimento del controllo territoriale la Repubblica teneva ingaggiate piccole forze stabili di guerrieri a cavallo, assoldate con contratti permanenti; secondo lo studio di Michael Mallet questa piccola aliquota di professionisti era: “generalmente comandata nel Pisano e composta da una compagnia di media forza di 100-200 lance e altri piccoli distaccamenti, tre o quattro compagnie di fanti professionisti ognuna di 100-200 uomini”. Gli uomini assoldati con questo tipo di ferma permanente erano condottieri minori, non sempre pagati con regolarità, gente come Bernardino da Todi che, nel 1479, si trovava in servizio da ben dodici anni e protestava con Lorenzo de’ Medici per gli arretrati che gli erano dovuti.
In caso di guerra, mobilitati i diplomatici in tutte le corti della penisola a rassicurare, blandire e interpretare gli umori bellici di avversari ed alleati, l’impellente necessità faceva sì che la Repubblica Fiorentina si provvedesse comunque di un esercito adeguato; i Dieci di Balia allertavano i capitani fermati con le condotte in aspetto e stipulavano altre condotte effettive con i capitani disponibili sul “mercato”, vale a dire quei capitani che potevano essere assoldati nelle regioni confinanti oppure prestati dalle potenze alleate. Ognuno di questi condottieri, dal capitano generale fino ai piccoli capitani, conduceva la propria compagnia nel luogo convenuto con gli ufficiali fiorentini. Era così prassi corrente per Firenze assoldare rapidamente un gran numero di uomini, sempre del mestiere, per giungere a espandere le esigue forze tenute in servizio fino a un esercito da campagna di 10.000 o 15.000 uomini. In questo caso la tradizionale forma di difesa dello stato fiorentino, affidata per tutto il Quattrocento alla costruzione e mantenimento delle fortezze nella costruzione delle quali vennero investiti capitali enormi, veniva rapidamente ampliata assumendo in primo luogo un condottiero capace al quale veniva affidato “il bastone del comando”.
Nell’arco di tempo dell’età Laurenziana, dal 1469 al 1492, Firenze ebbe come comandanti in capo condottieri di rango come Federico da Montefeltro duca di Urbino, Roberto da Sanseverino, Ercole d’Este duca di Ferrara. Allo stesso tempo, rovesciandosi le alleanze, Firenze si trovò a combattere più volte contro lo stesso Federico da Montefeltro perché, dato il sistema di reclutamento occasionale dei propri soldati, dovuto più al gioco diplomatico delle alleanze che basato sul mantenimento costante di gente fidata, avvenne spesso che un condottiero assoldato da Firenze per una determinata campagna non si facesse alcuno scrupolo di scendere in campo contro di lei nella campagna seguente. Significativo il giudizio di Piero Pieri: “Firenze sconta le conseguenze della sua costante impreparazione militare, lo strumento di cui dispone, costosissimo, è pur sempre poco sicuro, ineguale, incapace d’assicurare grandi risultati”.
Nucleo, nerbo ed elemento primario di un esercito della seconda metà del Quattrocento era ancora la cavalleria; pesante, montata su cavalli robusti adatti a sopportare il peso del cavaliere, ormai protetto da armamento difensivo completo di piastra (foto a sinistra: Lorenzo il Magnifico da un disegno di Leonardo da Vinci “ciento Ettorri in sugli arcioni”). L’uomo d’arme, uno dei “ciento Ettorri in sugl[i] arcioni” rammentati da Benedetto Dei, era seguito da un paggio ed il ragazzo; queste tre persone formavano la lancia, termine entrato in uso in Italia dalla seconda metà del Trecento con la calata dei soldati reduci dalle guerre “Inglesi”. La lancia era ancora la formazione organica tipica delle unità di cavalleria ma, per definire lo stesso concetto cominciavano a entrare in uso termine nuovi: verso la seconda metà del Quattrocento l’uomo d’arme a capo di una lancia viene definito vero armigero e pure elmetto, mentre a Firenze e altrove si comincia a trovare il termine corazza. La lancia o corazza dunque va intesa come unità tattica, la base minima che contribuiva a costituire una formazione usabile in battaglia, oppure semplicemente a fini amministrativi.
La parola lancia era stata mutuata nella lingua di quei tempi dal lessico tecnico legato alla guerra, così come un altro termine: la corazza: che stava originariamente ad indicare una protezione del busto. Nel secolo precedente era avvenuto lo stesso fenomeno per il termine barbuta.
In questa epoca il progresso dell’armamento difensivo era giunto quasi al suo apogeo; l’armatura, ovvero “il complesso delle difese in piastra che protegge da capo a piedi, specializzato a seconda delle necessità di guerra, di servizio, di gioco guerresco o di mostra” rivestiva il cavaliere da capo a piedi, articolandosi in svariatissimi elementi di piastra. Il peso di un simile arnese era notevole, il costo enorme ma la protezione data al guerriero pressoché totale rispetto all’armamento offensivo in uso; solo l’avvento delle armi da fuoco e principalmente degli schioppi da fanteria riuscirà a far lentamente tramontare il predominio in battaglia della cavalleria corazzata. Già in questo periodo, comunque, le formazioni di guerrieri a cavallo corazzati a poco servivano se lanciate contro una postazione fortificata, un semplice vallo difeso da steccati dietro il quale stavano appostati numerosi fanti ben armati e comandati. I cavalieri, se nel Quattrocento ancora è lecito usare questo termine così denso di significato, combattevano fra loro: i due eserciti contrapposti fronteggiavano la propria cavalleria e questa si affrontava in campo caricando e riordinando le proprie fila dopo ogni assalto.
L’uomo d’arme non combatteva isolato, oltre all’appoggio tecnico e materiale dato dai suoi compagni di lancia addetti al mantenimento delle armi, alla cura dei numerosi cavalli, al trasporto dell’equipaggiamento, il capo-lancia, vero armigero o elmetto che si volesse chiamare, faceva parte di una squadra. All’interno della compagnia capitanata da un qualsiasi condottiero, varie potevano essere le squadre, magari riunite in più schiere o, per usare un termine tecnico dell’epoca che avrà singolare fortuna: battaglie.
Le compagnie non erano composte solo da uomini d’arme ma erano ormai ampiamente miste, non era raro infatti che il singolo capitano avesse ai propri ordini contingenti misti di guerrieri a cavallo e a piedi, specialisti di una data arma raggruppati insieme, talvolta anche piccoli pezzi di artiglieria. Nel 1460 la compagnia di Tiberto Brandolini disponeva di 400 lance e 300 fanti, organizzati in 7 squadre di cavalleria e 8 compagnie di fanti, tra i quali 20 archibugieri e 50 balestrieri. La “casa” del condottiero era formata da 34 armigeri e 32 cavalleggeri, un maestro della cavalleria, il cappellano, 2 cuochi, 6 cancellieri, trombe varie, un ufficiale addetto agli alloggi e uno alle munizioni. Quando nel 1479 Costanzo Sforza signore di Pesaro passò dalla parte dei Fiorentini aveva nella sua compagnia 200 uomini d’arme a 4 cavalli ciascuno, 30 balestrieri a cavallo e 150 fanti provvisionati, bene armati. Può stupire l’esiguità della forza messa in campo da Costanzo Sforza ma gli eserciti del Quattrocento erano piccoli, solo 400 uomini erano combattenti effettivi nel migliaio di uomini della compagnia ora citata. Oltre agli effettivi delle singole squadre, a loro volta inquadrate nelle compagnie guidate dai condottieri, in questo periodo stati diversi da quello fiorentino, in special modo quello veneto, annoveravano fra le proprie fila anche lanze spezzate; queste altro non erano che quei guerrieri rimasti senza ingaggio in seguito alla morte del condottiero per il quale militavano, o allo scioglimento, per qualsiasi motivo, della formazione armata da cui provenivano. Negli anni Sessanta del Quattrocento svariate “lanze spezzate” arruolate nei ranghi delle truppe al soldo del papa erano i superstiti delle compagnie degli Anguillara, sbaragliati da Papa Paolo II nel 1465. Così come per altre lanze spezzate al soldo di Venezia nel 1476, assorbite nei ranghi della Serenissima e originarie delle compagnie dei vari Gattamelata. Roberto da Montalboddo, Antonello della Corna, tutti condottieri scomparsi da tempo di cui però Venezia continuava a usare gli antichi seguaci.
La forza degli eserciti veniva calcolata all’epoca in squadre; tutte composte da un certo numero di “corazze” o lance. A questo proposito possiamo vedere nel dettaglio qualche esempio relativo alla campagna del 1478-79, “la guerra dei Pazzi”: l’esercito messo in campo da Firenze nel 1478, comandato dal capitano generale Ercole d’Este, contava circa 40 squadre mentre quello opposto, guidato da Federico da Montefeltro, aveva in totale circa 60 squadre. Nel giugno 1479, quando Carlo Fortebraccio da Montone e Roberto Malatesta, al soldo di Firenze, iniziarono una brillante scorreria nel Perugino passando per la Val di Chiana, avevano in totale circa 40 squadre di cui 30 sconfissero a Passignano sul Trasimeno il comandante napoleano Matteo da Capua. Nel settembre dello stesso anno Federico da Montefeltro lanciò il suo fortunato colpo di mano contro l’esercito fiorentino acquartierato a Poggio Imperiale lasciando il campo di Rigomagno con 22 squadre scelte. La forza totale dell’esercito aragonese, pontificio e senese che assediò Colle Valdelsa nel settembre 1479 ammontava a circa 110 squadre.
Nonostante l’articolarsi delle compagnie, la presenza di fenomeni individuali quali le lanze spezzate, la diffusione crescente negli eserciti di fanterie provvisionate, è sempre la cavalleria pesante che segna ancora l’epoca; cavalleria in gran parte erede delle tradizioni sviluppate dalle due principali scuole italiane: sforzeschi e bracceschi. I condottieri di questo periodo si sentivano e in parte erano eredi diretti delle due maggiori scuole militari sviluppatesi in Italia nella prima metà del Quattrocento: quella facente capo a Muzio Attendolo da Cotignola, detto “Sforza” e l’altra derivata invece dal perugino Braccio da Montone. La differenza fra sforzeschi e bracceschi è stata ottimamente spiegata da Michael Mallet: “Grazie alla disciplina e all’accurata preparazione che (Muzio Attendolo detto “Sforza) faceva procedere ad ogni atto di guerra, egli era in grado di controllare i suoi nel campo di battaglia come mai non si era visto. Lo Sforza era un convinto assertore della tattica prudente, realizzata da grandi masse di soldati ben addestrati, non solo cavalieri, ma anche fanti, ai quali diede importanza particolare. La cosa non era abituale al suo tempo”. Illuminanti le parole a proposito invece di Carlo Fortebraccio da Montone: “il segreto della tattica praticata da Braccio va scorto, come nel caso dello Sforza, nella sua capacità di controllo sui propri soldati durante il combattimento. Ma l’analogia tra i due condottieri non termina qui. Infatti Braccio riteneva utile suddividere il suo esercito in tante piccole squadre da lanciare poche per volta nel folto della mischia. Così facendo gli era più agevole avere sotto il suo personale controllo l’andamento della battaglia, ma anche attuare una rotazione delle forze a disposizione che in tal modo, anche durante il combattimento, potevano fruire di pause per riposarsi. Avveniva così che i suoi soldati combattevano accanitamente per brevi lassi di tempo e poi si ritraevano cedendo il posto ad una squadra riposata. Questo, unito all’audacia naturale di Braccio, produceva la velocità di manovra e il valore dei bracceschi”.
Le scuole braccesca e sforzesca avevano formato la maggior parte dei condottieri che si affrontarono in Italia nella seconda metà del secolo e la rivalità fra i condottieri delle due scuole era sentita: nel campo fiorentino di Poggio Imperiale del 1479 i commissari dovettero dividere i condottieri bracceschi dagli sforzeschi perché la rivalità tra le due diverse tradizioni non degenerasse in risse al campo o, peggio, in battaglia; risse quanto mai sgradite ai commissari fiorentini.Le tattiche di combattimento facevano ancora perno sull’uso della cavalleria ma, come già si è visto a proposito dello Sforza con la sua attenzione all’impiego della fanteria, nella seconda metà del Quattrocento l’uso massiccio delle fanterie verrà diffondendosi e specializzandosi; è proprio nell’età laurenziana che termina la predominanza della cavalleria come arma risolutiva delle battaglie, questo avviene certo grazie all’introduzione delle armi da fuoco portatili che permettono all’umile soldato appiedato di abbattere con una schioppettata il costoso uomo d’arme, ma anche alla sempre maggiore disciplina e addestramento delle fanterie che cominciavano a schierarsi in campo in formazioni serrate, le picche rivolte al nemico, per affrontare le cariche della cavalleria. Un rapido sguardo sulla situazione europea contemporanea ci fa vedere proprio nel 1476 la rovina del grandioso esercito borgognone di Carlo il Temerario, disfatto dalle picche svizzere a Grandson.