Araldica – B. Normanno e M. Giuliani
25 Ottobre 2007Guerreggiare nella Toscana de”IL MAGNIFICO” I parte – M. Giuliani
25 Ottobre 2007Gli Aretini estesero il terreno del conflitto portandosi fino all’antica rivale Città di Castello, coinvolgendo Anghiari e San Sepolcro ed aprendo perciò su più fronti le ostilità. In guerra aperta oltre che con Firenze e con Siena, ora anche con la Chiesa. I Fiorentini non rimasero con le mani in mano. Sapendo gli Aretini lontani cominciarono una marcia nel Valdarno devastando ciò che incontravano lungo il loro cammino finché non furono raggiunti dall’esercito. I due eserciti schierati nella piana presso Laterina si fronteggiarono, insultandosi. La battaglia non ebbe luogo. Non avrebbe tardato molto a venire. Informati da sbanditi del Mugello, gli Aretini piombarono su Pontassieve ardendo e guastando il borgo di Compiobbi. Si attendeva un coordinamento delle forze ghibelline di Pisa e Arezzo, con la complicità di Guido e Buonconte, che invece non vi fu. La guerra proseguì per tutto l’anno, ininterrottamente e con ferocia crescente. Il conte Guido Novello, con a capo le sue masnade, guidò i suoi uomini fino a Buonconvento, alle porte di Siena, e lungo il suo percorso distrusse tutto ciò che gli si parava dinanzi. Contemporaneamente Buonconte e Guglielmo Pazzo guidavano gli Aretini nel Valdarno: il 12 marzo la masnada d’Arezzo venne infino a Montevarchi (Villani, Croniche, VII, 127), e tentarono poi di conquistare il castello di Incisa. Da lì alcuni membri delle famiglie dei fuoriusciti di Firenze, come i Lamberti, gli Scolari, i Fifanti e gli Abati, corsono fino a San Donato in Collina, presso a Firenze sette miglia, ardendo e guastando, sicchè i fumi si vedevan dalla città (Villani, Croniche, VII, 127).
La guerra stava per giungere allo scontro decisivo. I Fiorentini, temendo il peggio, provarono prima la via diplomatica, allettando il vescovo Ubertini con l’offerta di ben 5000 fiorini d’oro l’anno per i castelli in suo possesso, ma la cosa venne risaputa ad Arezzo; il Vescovo, ormai settantenne, rischiò di essere linciato dai suoi fideles. Il nipote, Guglielmino dei Pazzi, lo salvò da una fine certa. Anche se botoli, gli Aretini dovevano pur essere ringhiosi! I Capitani guelfi allora, riunitisi nel battistero di San Giovanni, decisero di muover guerra contro il Casentino, dove dominavano sia i Conti Guidi che il Vescovo d’Arezzo. La decisione fu ratificata dal Parlamento della Taglia Guelfa riunitosi ad Empoli, che stabilì come la piaga ghibellina dovesse essere estirpata dalla Toscana in ogni modo. Ad aprile una cavallata guelfa sorprese alcuni reparti ghibellini, infliggendo loro pesanti perdite. Il mese seguente, la visita di Carlo II d’Angiò segnò una svolta e probabilmente un anticipo su quella che fu l’ultima battaglia di questa guerra. Il due maggio infatti il prenze Carlo, detto lo Zoppo, passò da Firenze per recarsi a Rieti a farsi incoronare dal Papa. Gli Aretini, saputo della poca scorta dei Francesi, volevano tendere un agguato all’Angioino, filopapale e legato al partito guelfo. Ma i Fiorentini, per precauzione, offrirono al francese una scorta di 800 cavalieri e 3000 fanti che lo accompagnò sino alle porte di Siena. In cambio di un simile servigio il Principe si sdebitò con i Fiorentini, che glielo richiesero insistentemente, concedendo loro di potersi fregiare del suo vessillo. Lasciò infatti a Firenze un reparto di cento cavalieri francesi con un capitano ed un balio. Con anche tale appoggio i Fiorentini decisero, appena una decina di giorni appresso, di dichiarare guerra ad Arezzo, portando le insegne di guerra alla Badia a Ripoli. L’esercito guelfo partì il 2 giugno da Firenze. Passarono dalla Consuma anziché dal Valdarno, come avevano previsto i capi ghibellini, e si schierarono in un luogo che si chiama Campaldino il 10 di giugno del 1289. L’esercito era costituito da circa 12000 uomini di cui almeno 1600 a cavallo. Tutte le città della Lega Guelfa avevano inviato un contingente, e a queste bisogna aggiungere le truppe mandate da Bologna, i Romagnoli di Maghinardo Pagani, detto il Demonio, i Sanminiatesi di Malpiglio de’ Ciccioni e i reparti francesi di Carlo d’Angiò che spiegavano il vessillo d’azzurro costellato di gigli d’oro, retto per l’occasione da Ser Gherardo Ventraia da Tornaquinci.
Gli Aretini radunarono un poderoso esercito per fronteggiare il nemico, ma pur coinvolgendo numerosi alleati in uno sforzo enorme, non riuscirono ad eguagliare lo schieramento guelfo per quella che doveva essere la battaglia decisiva. I Ghibellini disponevano in campo di circa 8000 fanti, di cui pochi armati con balestre ed archi, e di 800 cavalieri, troppo pochi per fronteggiare la cavalleria pesante guelfa. L’11 giugno di quell’anno segnò una battuta d’arresto nella vita della comunità aretina. Una pausa segnata dal sangue, dalla morte di oltre 1700 uomini, dalla distruzione del contado, dei villaggi, dalla morte di tutti i Capitani della città e della sua guida spirituale, il suo Vescovo. Già ai tempi della battaglia, l’evento dovette generare una serie di episodi che esaltavano o denigravano fatti d’arme e personaggi. Nacquero così, come sempre accade, eroi e vigliacchi. Il nostro Buonconte, che probabilmente ad Arezzo aveva lasciato la sua Giovanna e la sua figlioletta Manentessa, si dice che prima dello scontro sia andato ad esaminare, su consiglio del Vescovo, lo schieramento avversario. Tornato con pessime notizie, sconsigliò l’attacco, ma di tutta risposta l’anziano, forse miope ma non vile, gli rispose che non era degno di portare il nome della sua nobile casata. Al che Buonconte replicò che dalla pugna nessuno dei due sarebbe uscito vivo (L’episodio è tramandato da un commentare di Dante, Benvenuto de Rambaldis, Commento, III, 157. Iuvenis strenuissimus armorum, qui in episcopus aretinorum apud Bibenam, missus a Guillelmino episcopo ad considerandum statum hostium, retulit quod nullo modo erat pugnandum. Tunc episcopus, velut nimium animosus, dixit: Tu numquam fuisti de domo illa. Cui Boncontes respondir: Si veneritis, quo ego, numquam revertemini. Et sic fuit de facto quia uterque probiter pugnans remansit in campo. Corpus ipsius numquam potuti invenire.). E così accadde.
Dinnanzi allo schieramento ghibellino si sistemarono dodici valenti uomini d’arme, che si facevano chiamare li paladini. La scelta cadde tra le famiglie più nobili ma non si fa menzione diretta di alcuno. Non possiamo far altro che elencare alcune di quelle nobili casate che persero i loro figli in quell’afoso sabato di giugno: i Pazzi del Valdarno, i Montefeltro, gli Ubertini, i Fifanti, gli Uberti, i Grifoni e gli Abati, i conti da Gangalandi e gli Scolari. Buonconte da Montefeltro era tra i feditori, cavalieri destinati a sfondare con un urto violentissimo la schiera dei Guelfi. Lo seguivano suo fratello Loccio e le sue truppe appiedate, tutti sotto l’insegna dello stendardo a bande azzurro e oro. Accanto a Buonconte, sempre tra i feditori, doveva trovarsi il suo amico Guglielmo de’ Pazzi, vincitori assieme alle Giostre al Toppo appena un anno prima. Dopo aver gridato tutti San Donato cavaliere! 600 cavalieri ghibellini si gettarono al galoppo contro il nemico, sfondando la prima linea di cavalleria. Dietro, a corsa, seguivano gli 8000 fanti. La battaglia fu aspra e dura, ma decisive furono le due ali di palvesari guelfi armati di lancia lunga e balestre che rovesciarono sul nemico un tale carico di fuoco da chiuderlo ben presto in una stretta mortale. Tutti i cavalieri si trovarono accerchiati e la loro forza d’urto ormai esaurita. A questo punto il conte Guido Novello sarebbe dovuto intervenire con le sue riserve. Ma non si decise e la viltà prevalse sul valore, spingendolo a spronare il suo cavallo verso il castello di Poppi. Da lì assistette impotente alla disfatta degli Aretini di cui era Podestà. Nella piana frattanto la battaglia infuriava e Corso Donati, che era stato nominato Capitano delle riserve lucchesi e pistoiesi, rovinò su un fianco dell’esercito ghibellino facendone strage. La battaglia dei Ghibellini era perduta. Molti dei vessilliferi erano già stati uccisi e anche i paladini annientati.
E Buonconte?
Il giovane, strenuissimus Bonuscomes, impegnato sin dall’inizio nello scontro delle prime file era uno dei personaggi più in vista dello schieramento ghibellino e sarà stato di certo mira di numerosissimi attacchi sia da parte della cavalleria che da parte dei balestrieri che avranno riconosciuto la sua divisa. I Capitani guelfi avranno probabilmente indicato i comandanti avversari descrivendo l’arme del Vescovo, di Buonconte, di Guglielmino de’ Pazzi. Fatto sta che del corpo di Buonconte nulla si seppe al termine dello scontro. L’impietoso ufficio del riconoscimento dei caduti, da parte di congiunti o amici, contrastava con quello che poche ore prima si era consumato, quando i villani non aveano pietà e gli ammazavano (Compagni, Cronica). Sulla fine del montefeltrano pesa, è inutile dirlo, il racconto che Dante ha intessuto nel V del Purgatorio. Numerose sono sorte le ipotesi attorno a questo struggente episodio. È probabile che all’indomani dello scontro, non sapendo più nulla di un capitano così in vista, siano nate delle leggende attorno alla figura di Buonconte (Cfr. Enciclopedia Dantesca, Montefeltro, Buonconte da, pg. 1017 e segg.); così come dovettero nascere attorno alla piana lugubre di Campaldino, evitata per anni, ricoperta da ossa e popolata fino ai giorni nostri da spettri. Tutto il racconto sulla morte di Buonconte è però frutto dell’immaginario poetico di Dante. Sia lo Zingarelli che il Papini avanzarono addirittura che fosse stato lo stesso Dante ad aver ucciso Buonconte, ma nulla c’è a riprova di tale fantasiosa ipotesi. Interessante è invece quella proposta dal Vivaldi, il quale sottolinea come forse Buonconte, scampato alla strage, avesse tentato di salvare il proprio drappello spingendosi verso la vicina Bibbiena, per poi proseguire verso Arezzo o la stessa Montefeltro, come ipotizza il Franceschini. Ed è qui che nei pressi della ghibellina Bibbiena, ai suoi piedi scorre l’Archian rubesto, furono forse raggiunti dai Fiorentini e qui dovette accendersi un ulteriore scontro. Comunque sia, il giovane montefeltrano trovò la morte in Casentino insieme a molti altri, illustri e non. E come tanti non ebbe probabilmente sepoltura.
Di lui rimane, ad epitaffio, quel V canto del Purgatorio che degnamente lo ricorda e che immancabilmente anche noi riportiamo.
“Oh “ rispuos’elli,” a piè del Casentino
traversa un acqua c’ha nome l’Archiano,
che sovra l’Ermo nasce in Appennino.
Là ‘ve ‘l vocabol suo diventa vano,
arriva’ io, forato ne la gola,
fuggendo a piede e ‘nsanguinando il piano.
Quivi perdei la vista e la parola;
nel nome di Maria finì; e quivi
caddi e rimase la mia carne sola.”
PUR., V, 94-102.
Tratto dal libro dello steso autore
“Gli eroi di Campaldino” edito da Scramasax