I Guerrieri Aztechi – V. de Sanctis
28 Ottobre 2007L’Organizzazione delle Artiglierie nel periodo napoleonico – B. Normanno
29 Ottobre 2007Nell’anno 1826 venne pubblicato in Italia un volume intitolato: Gli Italiani in Russia, col sottotitolo: Memorie di un ufiziale italiano per servire alla storia della Russia, della Polonia e dell’Italia nel 1812. Tale volume rievocava in generale quella campagna napoleonica contro la Russia, e in particolare la partecipazione di circa quarantamila soldati italiani inquadrati per lo più nel IV Corpo d’Armata, posto al comando del viceré d’Italia Eugenio Beauharnais, figlio adottivo di Napoleone.Nella premessa l’anonimo Autore precisa: «Imprenderò non a descrivere, ma ad accennare le cose delle quali fui partecipe, e comincerò dall’ultima spedizione in Russia, vale a dire, dalla più gloriosa, come dalla più sventurata delle nostre imprese. Altri capitani possono essere stati del pari animosi: ma niuno esercito ebbe mai tanta gloria, sia nelle vittorie, sia nelle sconfitte. Una buona parte del medesimo componevasi d’Italiani, onde l’Italia non può essere indifferente alla storia di questa guerra. Ella debbe gioire e dolersi al tempo stesso, udendo le prodezze e le sciagure de’ suoi figli che, sebbene reintegrati da breve tempo nell’arte della guerra, costanza, e valore e per causa on propria, il comune capitano, memore che era egli pure Italiano.
Parecchi Italiani di differenti nazioni hanno dato al Pubblico la Storia di questa spedizione. Alcuni fra essi assegnano agl’Italiani parte di quella storia che loro è dovuta. Non pertanto molte nostre splendide fazioni o furono appena indicate, o non ne venne fatta alcuna menzione. Io testimone oculare, e storico per ufficio del mio reggimento, ho ancora opportunità di notare quanto di giorno in giorno accadeva, e penso di potere aggiungere il mio giornale alle altrui relazioni. D’altronde tutti gli iscritti pubblicati sin’ora, limitandosi alla semplice narrazione degli avvenimenti militari, hanno poco o nulla toccato la storia delle due nazioni Russa e Polacca, contro una delle quali combattevano a favore dell’altra. Io scrivo dunque compendiosamente la storia della Russia, della Polonia, e dell’armata d’Italia nella spedizione militare del 1812 in Russia.
Tutto quello che riguarderà le altre truppe componenti l’esercito, sarà estratto, per quanto è possibile, dagli autori delle nazioni medesime, o da quegli storici militari, che più imparzialmente degli altri ne scrissero. Tutto ciò che è esclusiva ragione degli Italiani sarà la copia fedele de’ ricordi giornalieri di varj individui che fecero parte di quella spedizione; questa ingenua confessione mi sciolga dall’obbligo delle frequenti citazioni.
Ho voluto render conto fedele del piano dell’opera. Avrò peccato d’amor proprio; ma volli rispettare le uniche memorie che conservassi di quell’epoca, scritte sovente con un carbone sul luogo medesimo dell’avvenimento, ed al lume di un villaggio o di una casa in fiamme, e talvolta sotto il rigore di 28 gradi di gelo.
Sin dalla calata di Bonaparte in Italia, cioè sino dal 1796, ora gli uni ora gli altri i popoli della penisola combatterono di continuo fra le linee degli eserciti francesi, in Italia, in Germania, in Prussica e in Dalmazia. Finalmente dal 1808 al 1814 dugento mila italiani ebbero sempre comuni con quegli eserciti i periodi e le fatiche sui nuovi campi di battaglie. Potrà mai reputarsi una usurpazione l’attribuir a noi italiani parte di quegli allori che tinti furono del nostro sangue?
Alieno da quanto concerner possa la politica dei gabinetti, io non toccherò delle cause principali se non quel pochissimo a cui mi obbligherà pure ch’io parli spesso dei movimenti delle armi, non nostre, ma a cui le nostre erano strettamente collegate. Del resto, poiché nelle milizie francesi si frammischiavano in gran numero Piemontesi, Genovesi, Parmigiani, Romani, Toscani, Elbani, Corsi ecc.., io narrando ciò che torna a gloria della Francia, verrò pur sempre a narrare ciò che torna a gloria della nostra Italia.»
Questa pagina stralciata dall’introduzione è stata riportata per esteso perché essa dà un’immagine dell’ampio impianto dell’opera, che divisa in quattro volumi assomma a circa duemila pagine e si dilunga, come si vede, in varie direzioni trattando svariati temi che a distanza di oltre centocinquant’anni risultano a volte sfocati, o superati, o troppo dettagliati per poter mantenere vivo l’interesse del lettore d’oggi; tutti motivi che giustificano l’azzardo e l’arbitrio di aver svolto sul testo originale un’opera di massiccia riduzione, al fine di presentare,
incorniciato in un quadro d’insieme, tutto ciò che l’Autore, nella vastità della materia trattata, ha effettivamente dedicato alla presenza e alle vicende dei soldati italiani che hanno preso parte alla campagna napoleonica in Russia. Da un testo spesso ridondante, e talvolta, di faticosa lettura, si è cercato di estrarre quanto può interessare il lettore attuale, sia sul piano dell’informazione che su quello della riflessione del confronto; è inevitabile infatti che il discorso che si apre sulle vicende del 1812 si prolunghi a quelle vissute dagli Italiani (e non solo da questi) sul fronte Russo durante il secondo conflitto mondiale.
Prima di proseguire, è necessario a questo punto far uscire dall’anonimato l’«ufiziale italiano» che in tale modo generico ha firmato le Memorie. Egli stesso, più avanti nella sua lunga vita, confermò per iscritto di essere l’autore del predetto volume e di altri che negli anni successivi ebbe a scrivere. Nel suo libro Concisi ricordi di un soldato napoleonico egli si presentò col suo vero nome, Cesare de Laugier, e precisò testualmente : «Nobile, ricca, titolata, originaria di Lorena, è la mia famiglia Laugier de Bellecour. Nell’ottobre del 1734, divenuto Francesco I da duca di Lorena Granduca di Toscana, il mio nonno, suo gran maggiordomo, lo seguì in Toscana con la famiglia. Nacqui il 5 ottobre 1789, nell’ora stessa che scoppiava in Francia la rivoluzione». Era nato appunto nell’isola d’Elba, a Portoferraio, e venne ben presto inviato a studiare in collegio a Firenze, dove disimparò parte della lingua francese senza impadronirsi mai della lingua italiana, come la prosa dei suoi libri abbondantemente dimostra; ben spesso infatti si avventa con piglio militaresco contro intoppi lessicali, grammaticali e sintattici, e senza mai inciampare prosegue imperterrito raggiungendo con efficacia il pieno significato di quanto voleva esprimere.
Si arruolò a diciassette anni, nel 1807, come volontario e soldato semplice nel Reggimento Toscano e si trasferì successivamente nei Veliti della Guardia Reale Italiana prendendo parte alla campagna di Spagna, guadagnandosi la croce della Legion d’Onore. Rientrato in Italia, venne promosso sottotenente a fine 1810 e nel 1812 partì, sempre nella Guardia Reale, per la Russia e come aiutante maggiore di un reggimento partecipò a tutta la Campagna. Nel 1814 prese parte alla guerra contro l’Austria, passando poi a Capua agli ordini di Murat che lo nominò capitano. Successivamente, caduto Murat, si trasferì a Livorno e si dedicò a scrivere libri, fra i quali il ponderoso Fasti e vicende di guerra dei popoli italiani dal 1801 al 1815. in ben 13 volumi. In questo periodo il De Laugier si impegna appassionatamente nello scrivere, ed è da segnalare che nel 1826 vengono appunto pubblicate le sue memorie dal titolo Gli italiani in Russia.
Nel 1835 De Laugier viene promosso maggiore dell’esercito del Granducato di Toscana dal granduca Leopoldo II, assume il comando di un battaglione, e rimane di stanza per due anni a Portoferraio. La sua carriera militare ora procede speditamente: promosso tenente colonnello per anzianità è ritrasferito a Firenze, ma nel ’47 è comandante principale della Guarnigione di Livorno. Ma è nel ’48 che De Laugier vive una delle pagine più significative della sua vita: essendogli stato affidato il comando supremo dell’esercito granducale, guida le sue truppe alla battaglia di Curtatone e Montanara, e con soli settemila uomini resiste per molte ore ai quarantamila soldati austriaci, sostenuti anche da un imponente schieramento di artiglieria.
Nominato general maggiore effettivo nel settembre ’48, dopo varie traversie causate dalla fuga del granduca Leopoldo e dal subentro del governo provvisorio Guerrazzi, alla restaurazione granducale De Laugier venne prescelto quale ministro della Guerra nel nuovo
governo granducale, e comandante in capo dell’esercito nel luglio del 1849. Licenziato nel 1851, per qualche altro anno si interessò della vita pubblica, fino al ’59, e da allora si ritirò a vita privata: «Da quel momento, cesso affatto di mischiarmi nella politica. Ritirato nel mio romitorio, allontano da ogni consorzio, attendendo la falce, che indistintamente miete giganti e pigmei». Morì a Firenze dodici anni dopo, nel 1871.
Il libro di De Laugier, a giudizio della critica, non è privo di difetti, tutt’altro. L’Autore stesso più volte dichiara di non considerarsi uno scrittore, scrupolosamente annotate, man mano che si svolgevano sotto i suoi stessi occhi. E’ andato anche oltre, descrivendo i movimenti e le imprese dell’Armata napoleonica nel suo insieme, i disegni dell’Imperatore e addirittura i divisamenti e le operazioni dell’avversario russo, ma sempre rifacendosi ai documenti o a quanto era stato già pubblicato da altri testimoni negli anni dal ’13 al ’26, ma nella stessa Francia aveva avuto ben pochi validi predecessori (in Italia, Camillo Vacani e Antonio Lissoni che in quel tempo furono i principali storici delle guerre napoleoniche, scrivono dopo di lui e in ogni senso ne sono distanziati di diverse lunghezze). Il De Laugier non si atteggia a storico, ma piuttosto si professa raccoglitore di memorie che potranno servire poi allo storico futuro, se questi vorrà avvalersene. Scrive in fondo, come parla, alla buona, ma ammassa puntiglioso notizie a notizie, fino ad accumulare materiale che resta, e in definitiva fa testo. Certamente, a volte si abbandona ad esaltazioni, a entusiasmi che oggi verrebbero gettati direttamente nel gran calderone della retorica; ricorre a immagini altisonanti, a descrizioni enfatiche, ma bisogna tenere presente che egli è figlio del suo tempo, e che infine sotto ogni enfasi si percepisce indubbio lo slancio della sincerità dei sentimenti che affiorano nelle sue righe; e di ciò non si può sorridere neppure oggi, dai nostri punti di vista smaliziati e diffidenti. Narra con passione e con partecipazione, in definitiva, per quanto ci concerne, la tragedia di quarantamila italiani che furono mandati a combattere in una spedizione militare e tornarono in meno di duemila. Lo storiografo Zanoli precisa : «Il IV Corpo di 52.000 Franco-Italiani partiti per la Russia, non riunì a Marienwerder, a mezzo gennaio 1813, più di 207 ufficiali e 2.637 sottufficiali e soldati, ed in totale perciò 2.844 uomini, dei quali appena la metà in caso di servire. L’intero esercito francese cogli alleati residuava a 18.000 uomini, di cui 9.000 appena in istato di sostenersi in arme».
D’altronde, il 28 dicembre 1812, il principe Eugenio, comandante quel IV Corpo, scriveva alla moglie, vice-regina del regno d’Italia: «Crederesti, mia diletta amica, che non mi rimangono 2.000 uomini, dei quali la metà sono feriti? Questo è per te sola, te ne scongiuro».
Una onesta cronaca, quindi questa del De Laugier, di un evento straordinario che per i suoi significati non va dimenticato. Una sola volta, per quanto ho notato, l’Autore esca dai panni del cronista per affrontare considerazioni d’ordine superiore, e gettare sulla pagina affermazioni che dopo centocinquant’anni ci toccano da vicino. Lo fa nel quarto volume, allorché la narrazione si avvia all’epilogo di quei sei mesi di campagna di Russia, che strappano allo scrittore le seguenti parole: «Dove trovare una fonte più inesauribile di lezioni e più feconda di meditazioni, quanto questo periodo di un solo anno, di una sola campagna, ove pare siano stati appositamente distribuiti tutti gli intrecci, i nodi e gli sviluppi di un fatto teatrale? Abbattuto un colosso ne ha questa spedizione trovato un altro, collocandolo sopra una base che non ha limiti, e che gravita e pende di giorno in giorno sempre più sull’Europa.
«Qual interesse non saprebbe inspirare questa gigantesca spedizione, se trattata fosse dalla penna di Tito Livio o di Tacito? Ma sorgerà forse un giorno uno scrittore il quale non rifiuterà di strappare pur anco da queste memorie, una porzione di materiale, capace ad innalzare un conveniente edifizio a cotanta mole di sventura e di gloria, per l’esercito tutto, e per l’armata d’Italia in particolare».
Non supponeva certamente, il De Laugier, nello scrivere quel primo periodo, di fissare nel tempo una così lungimirante profezia. Come non sapeva, scrivendo il secondo, che non ci sarebbe stato bisogno che uno storico fuori classe reimpastasse e sublimasse i temi della campagna napoleonica ad uso delle venienti generazioni, proprio perché queste, in altro secolo, avrebbero rivissuto e rinnovato la stessa vicenda e altri uomini in divisa sarebbero stati protagonisti di un eguale tragedia.
Tragedia toccata a noi, che ancora viviamo. E possiamo parlarne, e ne abbiamo parlato, e ancora lo faremo, finché avremo vita, per convincere quanti più possibile ad operare attivamente affinché i mali della guerra, e della pace violentata ogni giorno, vengano preventivamente respinti al di là della siepe che contorna il consesso umano.
A questo fine, in parallelo con l’opera di De Laugier, facciamo seguire un breve compendio della Campagna di Russia venuta in sorte a noi, in modo che il lettore abbia sotto gli occhi il duplice quadro di una stessa rinnovata sciagura; mentre c’è già chi minaccia, sulla terra e dai cieli dell’uomo, una terza e totale sventura.
Non abbiamo maggiore forza, oltre a quella di raccontare la verità. E questo pertanto facciamo. Offriamo queste nostre Campagne di Russia per chi voglia ascoltare e trarre le conseguenze finché si è in tempo. Ben sappiamo, che esiste chi non vuole ascoltare e capire, perché ha già una sua idea prefissata; ma sappiamo anche che la terra è disseminata all’infinito di buona e brava gente, che non può essere condannata in eterno a subire, e la cui volontà in un tempo di maggior civiltà potrà prevalere. Contro un Napoleone insorge sempre più disarmante la consapevolezza degli innumerevoli. Napoleone sapeva, ma non tenne conto che dei suoi disegni invano tentarono in diversi di dissuaderlo da Calaincourt al cardinale Fesch, e perfino Talleyrand e Fouché. Accadde anche che il marchese Federico Fagnani, consigliere di Stato e ciambellano nel regno d’Italia costituito da Napoleone, nel 1810 compisse un viaggio di sei mesi in Russia, e al ritorno compilasse un libro di resoconto, intitolato Lettere scritte di Pietroburgo, libro che venne pubblicato nei primi mesi del 1812 e che per l’argomento non poté certo sfuggire a Napoleone, attentissimo e sensibilissimo alla trattazione di ogni problema che gli interessasse, e dotato di stuoli di lettori specializzati che gli inoltravano ogni novità. Ebbene, a pagina 150 di quel libro si legge qualcosa che sa d’incredibile ed oggi farebbe certo parlare di precognizione, là dove il Fagnani riferisce che, parlando con un russo su una eventuale guerra fra gli imperi francese e russo, così si esprime letteralmente: «Avete a sapere che, ragionando un giorno queste cose ad uno di costoro e sforzandomi di persuaderlo che, facendosi una nuova guerra, l’esilio di questa non sarebbe per essere dissimile da quello delle antecedenti, egli così prese a rispondermi: “Anch’io vi concedo che il vostro Sovrano sconfiggerà i nostri eserciti come ha fatto per l’addietro. Ma, e perciò? Prima di tutto le vittorie costeranno tanto sangue al vincitore come al vinto, per il noto costume dei nostri soldati di combattere con pertinacia in fino all’ultimo respiro. L’esercito nemico, estenuato dalle sue sanguinose vittorie, e trattenuto ad ogni tratto da intoppi, e impedimenti d’ogni maniera, che grazie alla natura de’ siti noi potremo opporgli, non potrà coglierne che scarso frutto. Costretti a retrocedere noi daremo il guasto à paesi che saremo costretti di abbandonare, e li trasformeremo in deserti, massime che si tratta di paesi, i cui abitatori non sono troppo a noi devoti, in guisa che il nemico non troverà nulla di ciò che si richiede al sostentamento di un esercito. I nostri Cosacchi, ed i Tartari in otto giorni mettono a saccomanno e devastano cento leghe di paese in modo che non vi rimanga vestigio di coltura, ne di abitazione. Intanto passa veloce la stagione opportuna al guerreggiare, che in questi paesi è di brevissima durata. Le piogge autunnali convertono le strade in pantani de’ quali non si può trarre i piedi. Alle piogge succedono davvicino le nevi ed i ghiacci che rendono poco meno che impossibile ogni militare intraprendimento. I nostri soldati e i nostri cavalli incalliti nel freddo non perderanno né il vigore né l’ardimento; mentre i nostri nemici non potranno comportare l’asprezza del clima, né le privazioni cui saranno esposti, e dopo otto mesi di stenti il loro esercito non sarà più in condizioni d’intraprender cosa di qualche momento”»
E’, come si vede, il resoconto anticipato ed esattissimo di ciò che avvenne, prima in un secolo e poi nel successivo: il nostro secolo, nel quale viviamo incapaci di sgrovigliarci dagli orrori, mentre all’orizzonte si elevano, di tempo in tempo, i funghi atomici.
In questo contesto e di fronte a questi risultati, quale servigio possono rendere le cronistorie delle partecipazioni italiane alle Campagne di Russia?
Lo spirito ironico e beffardo di Beaumarchais ha dato da tempo una sua risposta: « E’ sulle cronache false che si costruiscono le realtà storiche». Ma forse ciò è più a proposito asseribile per quanto riguarda i tempi di pace, nei quali tutte le acrobazie, le distorsioni e i sotterfugi, o in altre parole il dolo e la menzogna sono facilmente inseribili e mascherabili nell’azione umana. Meno facilmente ciò è riferibile alle vicende di uomini in guerra, allorché con scadenze relativamente brevi, nei più grossolani termini e nei diretti confronti sul campo delle forze morali e materiali impegnate, i vari nodi vengono più chiaramente e ineluttabilmente al loro pettine.
Ma ecco che in definitiva, soverchiando Beaumarchais e dando alla ragione d’essere ed elevando a dignità tutte le cronistorie, considerate documento e insostituibile mezzo di confronto e d’indagine, viene a soccorrerci la vera Storia, che per la penna d’un Thiers e proprio in relazione alla Campagna Napoleonica di Russia giunge alla visione storica di sommità, e nel particolare si pronunzia con conclusioni valide per ogni tempo e per ogni responsabile. Infatti, dopo aver indicato gli errori insiti nell’ideazione e nell’esecuzione della spedizione, Thiers ne deduce gli insegnamenti da trarsi. Sostiene dapprima che il risultato finale disastroso non è imputabile alla imponderabilità di certi eventi, ma invece a una diretta cagione morale. Scrive poi Thiers: «In questi casi luttuosi vuolsi, in nostra sentenza, avvisare non tale o tal altro difetto nel modo di operare, ma sebbene il gran fallo d’essere andato in Russia; e in questo farlo un altro ancora maggiore, quello d’aver voluto tutto tentare sulla terra contro il diritto, contro le affezioni dei popoli, senza verun rispetto ai sentimenti di coloro che si voleva sottomettere, senza rispetto al sangue di coloro che procacciare dovevano la vittoria: in una parola, lo sviamento del genio che più freno non soffre, né contraddizione, né resistenza, sviamento del genio reso cieco dal potere assoluto».
A queste parole fanno da contrappunto queste altre di Napoleone, e faccia il lettore la sua scelta finale: «Io non ho meno di ottocentomila uomini, e a chi possiede un sì fatto esercito l’Europa deve ubbidire. I grandi del mio impero sono divenuti troppo ricchi, e mentre si mostrano inquieti per me, sol temono per se stessi quella generale confusione che terrebbe dietro alla morte mia. Il bene della Francia e la tranquillità generatemi comandano la guerra in Russia. Sono io da biasimare, se il grado di potere a che mi sono innalzato, mi forza a prendere la dittatura dell’universo? I miei desideri non sono pur anco compiuti: le cose fatte fin qui altro non sono che un disegno, il quale conviene colorire. L’Europa non debbe avere che un solo codice di leggi, una sola corte di appello, una sola sorta di danaro».