La Colonna di Traiano – parte I
31 Ottobre 2007I pupazzi animati di Gerry & Silvia Anderson – Paolo Martinelli
31 Ottobre 2007Suo padre, Ranieri de’ Pazzi del Valdarno, fu uno dei principali capi del partito ghibellino alla metà del XIII secolo. Ranieri doveva essere tenuto in gran considerazione se il 25 febbraio 1250 fu investito del titolo di Vicario Imperiale nel territorio di Arezzo e di Città di Castello. Il Davidsohn specifica che seguitava anche ad essere uno dei capi del partito ghibellino, mentre il figlio si trovava ora nel campo avversario.
Ranieri ebbe certamente almeno altri due figli maschi, noti col nome di Ranieri di Ranier Pazzo e Ubertino di Ranieri e aveva sposato una sorella del vescovo Guglielmino degli Ubertini, imparentandosi così con l’altra grande casata ghibellina di Arezzo. Questo fatto ha inoltre generato non poca confusione nell’ascrivere i vari membri di questa bifida genealogia, ora ad una ora all’altra famiglia.
Una delle prime notizie riguardanti Ranieri è di fatto un tradimento, ordito assieme a Farinata, ai danni dei Ghibellini di Figline, pur di poter rientrare in Firenze. Nocte die dominici, 29 Septembre 1252, il Podestà di Firenze riunì in un’abitazione di Figline, trenta dei più eminenti abitanti della città […] informandoli che aveva concluso coi cavalieri Farinata degli Uberti e Ranieri de’ Pazzi e con uno dei loro fedeli di Figline, accordi segreti. Il prezzo per rientrare in città era infatti stato stabilito, da Ranieri e Farinata, essere Figline.
Se dopo la vittoria ghibellina del 1260 di Montaperti, le nobili casate di parte imperiale si presero, come si è detto, le proprie personali rivincite, la famiglia dei Pazzi, assieme agli Ubertini, si distinse per un comportamento particolarmente crudele. Rimase celebre un episodio accaduto a Castelnuovo d’Avane, un piccolo borgo poco distante da Cavriglia, nel Valdarno superiore. Gli abitanti di Castelnuovo si vantavano di non dover essere sudditi di nessuno, facendo risalire tale privilegio addirittura ai tempi del marchese Ugo di Toscana. I Pazzi li costrinsero per vim et metus a sottomettersi ad un arbitrato di Durazzo, figlio di Guidalotto de’ Vecchietti. Ogni abitante del borgo doveva rendere un tributo in cereali alla famiglia dei Pazzi. Ed ancora. Ogni volta che un membro di tale casata veniva investito cavaliere, gli abitanti del borgo dovevano contribuire alle spese delle feste che si sarebbero celebrate. Qualcuno, memore dell’antica e pristina libertà, si rifiutò di sottostare a simili soprusi. La risposta dei Pazzi fu consona al cognome della loro genìa. Fatti arrestare, i rivoltosi vennero repentinamente condannati a morte. Poi i fratelli Guglielmo e Ubertino, con le proprie masnade che sventolavano l’insegna con l’indentato d’oro e di rosso, presero tragicamente a cavalcare dinnanzi al borgo, in cui si erano asserragliati i timorosi abitanti, schifati da un simile comportamento. Ma tale reazione fece indignare ulteriormente i feudatari, i quali incendiarono campi e case attorno al paese e imprigionarono alcuni abitanti, promettendo a quelli rimasti entro le mura che se non avessero consegnato il borgo in breve tempo, li avrebbero passati a fil di spada. La resistenza degli abitanti fu la causa della loro rovina. Sistemati lungo i bordi del fossato che circondava il borgo, i prigionieri furono fatti a pezzi sotto gli occhi increduli di quanti avevano voluto opporsi. La gente di Castelnuovo si appellò al Comune ghibellino di Firenze, che naturalmente non prese alcun provvedimento, essendo costituito anche da membri della casata dei Pazzi. Pensarono allora di trovare maggiore fortuna presso il Vescovo di Arezzo, Guglielmino Ubertini, che però, in questa vertenza, mise al primo posto il fatto di essere lo zio dei due sciagurati carnefici, piuttosto che il pastore della diocesi aretina.
Nel 1267 Ranieri de’ Pazzi, il padre di Guglielmo, ebbe un ruolo di primo ordine in un grave misfatto che colpì fortemente l’opinione pubblica del tempo e che ebbe risvolti anche nella politica europea, per il quale Dante non dimentica certo di fargliela scontare tutta, sistemandolo tra i violenti contro il prossimo, immerso in un fiume di sangue bollente. Ranieri fu infatti l’autore materiale dell’attentato ordito ai danni del vescovo Garcia da Silves. L’agguato fu organizzato da Enrico di Castiglia, cugino di Carlo d’Angiò e fratello del re Alfonso di Castiglia. L’Infante di Spagna infatti, geloso delle mire del fratello, ostacolava con ogni mezzo la sua ascesa al potere. Di fatto i Ghibellini nulla avrebbero ottenuto da un simile attentato, se non attirarsi le ire del Papa e lo sdegno della popolazione.
Il re Alfonso aveva inviato come capo dell’ambasceria diretta al Papa per trattare l’elezione imperiale il Vescovo della città di Silves, accompagnato fra gli altri dall’Arcidiacono di Salamanca e dal Decano del Capitolo, dominus Petrus. La delegazione, diretta a Viterbo, giunse nel Valdarno superiore, presso Ganghereto, territorio dei Pazzi. Nella piana ove oggi sorge Terranuova Bracciolini, la carovana di prelati venne assalita nel dicembre del ’67 da un numeroso contingente di uomini armati, con in testa Ranieri e Squarcialupo di Sofena. Ad essi diedero man forte gli abitanti di Ganghereto, all’epoca feudo dei conti Guidi di Poppi, che invece ben si guardarono dal partecipare ad una simile azione banditesca. Sotto probabile lauto compenso di don Enrico, il Pazzi e Squarcialupo colpirono ripetutamente il Vescovo e gli altri membri dello sfortunato drappello, che venne poi depredato di tutti i tesori che portava. Risale al 5 aprile del 1268 la bolla con cui Clemente IV scomunica il padre di Guglielmo per l’omicidio del Vescovo di Silves , un episodio giudicato certamente riprovevole anche in quei secoli in cui spesso la morte non faceva scalpore. La scomunica fu estesa poi a tutti gli abitanti e alla stessa cittadina di Ganghereto. Gli assassini erano ora privi di qualsiasi diritto. Chiunque avrebbe potuto disubbidire agli ordini impartiti dai nobili scomunicati, e chiunque poteva assalirli. In Ganghereto non si sarebbe più potuto dir messa, non vi poteva entrare uomo di chiesa. L’interdetto ricadeva su quanti prestavano aiuto ai Pazzi, sui loro fratelli e nipoti e sui discendenti degli scomunicati, fino alla quarta generazione.
Frattanto, in questa famiglia di Pazzi (!), cresce il nostro Guglielmo, di fiero animo antipapale. Questo è certo.
L’anno seguente, fallita la spedizione di Corradino di Svevia, cui probabilmente i Pazzi, congiunti degli Ubertini, diedero aiuto, Raniero guida la guerra nel Valdarno contro Firenze. È ipotizzabile che i due fratelli, il nostro Guglielmo e Ranieri, lo abbiano aiutato nella difesa del patrimonio minacciato dalla forza guelfa. I castelli di Montefortino, Poggittazzi, Ristruccioli, Pian di Mezzo furono mira di assedi da parte dei Fiorentini. Poi tutti gli uomini fiorentini atti alle armi si posero in obsidione castri de Hostina. Asserragliatosi nel castello che sorgeva poco lontano da Sco, in piena diocesi di Fiesole, Ranieri resistette per diversi mesi agli assalti dei Fiorentini. Una volta però terminati i viveri, gli assediati furono costretti a tentare una sortita notturna nel tentativo di riparare altrove. Ma, scoperti, furono catturati o uccisi. Il castello venne raso al suolo, Ranieri venne condannato tra i proscritti e molti dei suoi beni furono confiscati.
Nel 1271 vengono demoliti i castelli di Ganghereto e Gava, possessi dei Guidi, alleati dei Pazzi, e sembra esser stato Uberto Spiovanato de’ Pazzi, figlio di una sorella del vescovo Ubertini, del ramo guelfo, a convincere gli abitanti di Ganghereto, dietro pagamento dei Fiorentini, a demolire il loro castello, a vantaggio della città di Firenze e della Parte Guelfa.
Nel 1272, il 21 aprile, Gregorio X dal palazzo del Laterano rinnovò la scomunica contro Ranieri e Squarcialupo di Sofena , rei dell’assassinio del Vescovo spagnolo, e contro quanti, quattro anni prima, avevano appoggiato lo sfortunato Corradino.
Guglielmo Pazzo ormai è un’autorità tra i Ghibellini toscani e prosegue la via lasciata dal padre, cui combatte al fianco. Viene ben presto nominato Capitano dei Ghibellini fuoriusciti di Firenze, poi si reca in Romagna alla testa del contingente di Ghibellini fiorentini, a prestare il proprio talento militare a quelli di Bologna e Romagna. Vincitore nella battaglia di Ponte San Proclo (giugno 1275) al fianco di Guido da Montefeltro, Guglielmo, distintosi per la sua fierezza, nel 1275 viene eletto dai Ghibellini romagnoli Capitano di Guerra dei Bolognesi.
Quando nel 1280 il cardinal Latino tentò una riappacificazione tra i Guelfi e i Ghibellini fiorentini, molte famiglie fedeli all’Imperatore furono riammesse in città. Ma non i Pazzi che, assieme a molti altri, subirono la messa al confino. Guglielmo, che risiedeva nel Sesto d’Oltrarno, compare infatti tra i 55 Ghibellini che devono lasciare Firenze per recarsi a confino nel patrimonio [Patrimonium Petri], e stare in quei luoghi da dichiararsi da lui tra Orvieto e Roma, con obbligo di rappresentarsi a’ rettori, e di non s’allontanare per dieci miglia senza licenza del papa, al quale stesse il licenziargli; promettendo che Sua Santità lo farebbe subito se si fossero ridotti a pace e amicizia per mezzo di parentadi, o in altra maniera; obbligandogli ancora a dar mallevadore per procuratore avanti al capitano di Firenze, non solo di non partire dal confino, ma di comparire, pur per procuratore, ogni volta che fussero citati dagli ufiziali del comune, sì per cause civili come per criminali.
I Guelfi fiorentini infatti, sfruttando come precedente la messa al confino di Guido di Montfort, macchiatosi del barbaro omicidio di Enrico di Cornovaglia , richiesero che simile pena venisse applicata anche per Guglielmo de’ Pazzi, che era stato addirittura uno dei procuratori ghibellini. Il 27 gennaio del 1281 i conti Guidi, i conti di Mangone, i Pazzi del Valdarno e gli Ubaldini della Pila s’obbligarono a mille marche d’argento per ciascuno per l’osservanza, dandone mallevadori cittadini fiorentini . È da ascriversi poi a questi anni la morte del padre, Ranieri, che non viene più nominato.
Cacciati da Firenze, i Pazzi proseguirono la propria lotta contro i Guelfi. Ma il 2 novembre del 1285, papa Onorio IV, scrivendo al Vescovo di Siena, rinnovava la scomunica contro Ranieri e i suoi figli.
Giungiamo così al fatidico anno 1287, allorché i Ghibellini s’insignorirono d’Arezzo. I Ghibellini […] non volendo aver compagni in quel dominio che non s’aveano saputo acquistar con la propria virtù, si volsono per via del tradimento a cacciar i Guelfi della patria, e tenuto segreto trattato col vescovo Guglielmo, col padre di Buonconte di Montefeltro, co’ Pazzi di Valdarno, con gli Ubertini, e con altri fuoriusciti di Firenze, diedono loro di notte tempo una porta della città .
Da qui in poi la vita di Guglielmo è segnata da eventi bellici. Dalla difesa di Arezzo contro i ripetuti assedi guelfi, alla vittoria presso Pontassieve, dal mancato congiungimento coi Pisani alla fallita presa del castello di Corvano.
Nel 1288 i due eserciti si fronteggiarono presso la piana di Laterina. Per la prima volta l’esercito guelfo sventolava la bandiera del re Carlo d’Angiò, consegnata quella volta a Messer Berto Frescobaldi. Gli Aretini, forti di 700 cavalieri e 8000 fanti, attesero di là d’Arno, in un luogo detto Candella Riccia, l’arrivo dei Fiorentini. Questi si schierarono a battaglia sulla spianata oltre l’Arno, così che il fiume divideva i due eserciti. Era Arno in quel tempo molto sottile. I Fiorentini avrebbero potuto agilmente passare il fiume. Ma una volta giunti all’altra sponda avrebbero dovuto risalire un colle per giungere dinnanzi ai nemici, i quali erano in un’erta dove con grandissimo disavvantaggio loro stanchi di due fatiche arebbono attaccato la battaglia.
I Fiorentini richiesero ai Capitani aretini, Buonconte e Guglielmo Pazzo, di scendere e disporsi presso la riva, così da avere spazio per portare l’assalto, così da riparare la vergognosa fuga fatta dall’assedio di Corvano.
I Capitani aretini mandarono fieramente a dire che essi non aveano a dar conto di quel che aveano a fare a’ nemici.
Dopo alcune ore di attesa gli Aretini se ne tornarono ad Arezzo, mentre i Fiorentini attesero il tramonto schierati a battaglia, per poi recarsi a Laterina. Guglielmo fu informato che nella via del ritorno i Guelfi distrussero i castelli della sua famiglia, Montemarciano, Poggittazzi e Montefortino. Quest’ultimo fortilizio sembra venne ceduto dal solito Uberto Spiovanato Pazzi che ricevette in cambio dal capitano fiorentino Fussirago da Lodi 1100 fiorini d’oro, 15 moggi di grano e la possibilità di portare fuori da Firenze tutti i propri averi.
Dopo il sanguinoso trionfo conseguito alla Pieve al Toppo, nel quale, come abbiamo visto, Guglielmo ebbe ruolo da protagonista accanto a Buonconte, gli Aretini dovettero fare i conti con un altro nemico. Più forte e sottile di una tagliente lama di spada: il denaro. Il vescovo Guglielmino, come più volte abbiamo accennato, fu allettato da una cospicua somma di denaro. L’intento fiorentino era probabilmente quello di evitare comunque una guerra che avrebbe portato numerosi lutti, a nessuno graditi. Il vescovo Ubertini avrebbe ceduto i propri castelli in cambio di un lauto vitalizio. Ma il triste progetto di Guglielmino venne scoperto dagli Aretini, che sentitisi traditi, decisero di ucciderlo.
Dino Compagni ci offre nella sua Cronica un affresco dell’episodio: Gli aretini sdegnati per le parole sue perché ogni lor disegno si rompeva ordinarono di farlo uccidere, se non che messer Guglielmo de’ Pazzi, suo consorte, ch’era nel consiglio disse che sarebbe stato molto contento che l’avessono fatto, non l’avendo saputo, ma essendone richiesto, non lo consentirebbe che non voleva essere micidiale del sangue suo. Scampato lo zio, a cui Guglielmo doveva molto specie per la protezione avutane dopo i truci fatti di Castelnuovo d’Avane tanti anni prima, gli Aretini si prepararono alla guerra che ormai giungeva al culmine.
Schierati a battaglia, i Ghibellini avevano sistemato in testa allo schieramento 12 uomini scelti. È da immaginare che tra questi militasse anche l’animoso Guglielmo Pazzo.
Ma proviamo a descrivere come forse Guglielmo si presentò bardato sulla piana di Campaldino, così come lo ha immaginato e ha voluto riprodurlo Mario Venturi.
Guglielmo Pazzo indossa un grande elmo (elmo a staro) terminante in forme troncoconiche tipiche dell’epoca, diversamente dagli elmi di epoca precedente di forma sostanzialmente cilindrica. L’elmo è dipinto di rosso ed è sormontato da un cimiero dorato in forma di ventaglio. Tale forma non rappresenta un elemento araldico di famiglia ma è piuttosto un proto-cimiero di forma generica e diffusissima all’epoca; l’uso di cimieri di famiglia tende a generalizzarsi successivamente. La protezione del corpo consiste innanzitutto in un usbergo in maglia di ferro, una sorta di camicia a mezza coscia comprensiva di cuffia e di maniche terminanti con guanti a moffola (tutte le dita unite salvo il pollice) il tutto (camicia, cuffia, guanti) senza soluzione di continuità. Il nostro Guglielmo indossa un’armatura del corpo, ovviamente sopra l’usbergo, definibile in modo tutt’altro che generico “corazza”. C’è da tener presente che tale termine deriva da cuoio (corame) e, per l’appunto, quella di Guglielmo consiste in una struttura in cuoio al cui interno sono applicate (rivettate) varie placche di metallo, il tutto coperto di stoffa. A partire dall’interno la struttura è la seguente: piastre di metallo, cuoio, stoffa; tale stoffa è anch’essa di colore rosso, con le teste dei rivetti dorate a vista. Nel nostro caso tale armatura non è ulteriormente coperta da alcuna sopravveste e si tratta quindi di un’armatura a vista. L’armamento degli arti superiori si completa con spallaroli metallici dorati di forma discoide e da placchette altrettanto discoidi e dorate nell’area del gomito. La protezione di gamba consta di una piastra di coscia ed una di gamba (stincale) in cuoio cotto collegata da un ginocchiello di forma e colore analoghi allo spallarolo. Il piede calza una scarpa rinforzata di colore cremisi con teste di rivetto dorate. Lo scudo, di dimensioni ancora abbastanza importanti, è di forma “triangolare” e decisamente convesso. Una cinghia (guiggia) assicura lo scudo al collo del combattente. La lancia, dipinta con un’alternanza elicoidale di rosso e di giallo, porta una banderuola (pennoncello) con lo stemma dell’Impero (d’oro all’aquila dispiegata di nero). I quarti anteriori del cavallo sono protetti da una cortina di maglia di ferro e tutto l’animale indossa, sopra la maglia, una gualdrappa (coverta) decorata con lo stemma a tutto campo. Tale coverta si compone di due metà, una anteriore (comprensiva di collo e testa) ed una posteriore (con coda nascosta). La sella si compone di arcioni (anteriore e posteriore) molto alti e avvolgenti ed è fissata all’animale da due sottopancia sovrapposti. È più che ragionevole, come dice lo Scalini, che i Ghibellini fossero armati più all’antica (alla tedesca) rispetto ai Guelfi armati alla francese. Questo lo si nota nella scelta dell’elmo: Guglielmo indossa un elmo a staro (tipicamente tedesco per l’epoca) piuttosto che un grande elmo ogivato ed a visiera mobile di stile moderno e francoprovenzale. Il resto dell’armamento è di fatto piuttosto all’ultimo grido come merita un personaggio di prima grandezza ed a tutti gli effetti toscano e a contatto con i modi, le mode e gli umori dei suoi avversari politici.
Prima dello scontro, la tradizione vuole che Guglielmo scambiasse le proprie insegne con quelle dell’anziano zio vescovo. Avrebbe così attirato su di sé gli attacchi dei Fiorentini che, prima fra tutti, volevano la testa dell’Ubertini. Perciò il Pazzo combatté spiegando il vessillo degli Ubertini, un leone rosso su sfondo oro, mentre il Vescovo d’Arezzo portava l’indentato dei Pazzi.
Entrambi morirono in battaglia. Ma, e viene più volte rilevato anche dagli storici fiorentini, si portarono egregiamente.
Accanto a Guglielmo caddero sotto i colpi dei Guelfi suo fratello, Ranieri di Ranieri Pazzi, che morì sotto scomunica, e due suoi nipoti della parte degli Ubertini.
La battaglia di Campaldino e la sconfitta inflitta ai Ghibellini d’Arezzo non coincise però con la fine dei Pazzi del Valdarno. La loro forza e pervicacia costrinsero il Comune di Firenze a fortificare gli avamposti nel Valdarno costruendo le cinte murarie di San Giovanni e di Castelfranco di Sopra. Questo per un duplice scopo: per agevolare gli esasperati servi dei Pazzi, che trovando ivi asilo, venivano di conseguenza sciolti da ogni vincolo feudale, e in secondo luogo, per meglio controllare la viabilità resa insicura dalle incursioni e ruberie dei Pazzi che, come dice lo stesso Dante, riferendosi a Ranieri, fecero alle strade tanta guerra.