Buonconte, il Guerriero di Montefeltro (2ª parte)
25 Ottobre 2007Jus Primae Noctis – Bruno Normanno
25 Ottobre 2007Le fanterie aragonesi disegnate nella Cronaca napoletana figurata del ‘400, sono probabilmente le stesse che furono protagoniste della gloriosa giornata del Poggio Imperiale nel 1479. Un portabandiera leva alta l’insegna aragonese e precede la compagnia di fanti, scandita nella marcia dai suoni ritmati di un musicante; costui nel disegno picchia con la mano destra una bacchetta sul tamburo, tenuto sospeso sul petto mentre, contemporaneamente, regge con la sinistra un piffero. I soldati sono armati di lance corte, come la ronca, arma manesca da punta e taglio manicata su asta corta, ancora diversa dalla lunga picca usata dalle coeve fanterie svizzere. In questo stesso periodo le fanterie svizzere, infatti, perfezionano il maneggio della picca, arma già usata in Toscana dalla fine del secolo XIII ma che le fanterie svizzere usarono in massa, disponendo le proprie formazioni in quadrati serrati irti di punte.
I fanti che si ammirano nelle raffigurazioni pittoriche di un’epoca poco anteriore, quelli dipinti da Paolo Uccello per esempio, sono uomini armati con protezioni del busto e del capo, raramente hanno protezioni alle braccia e le gambe sono semplicemente vestite di calze; per armi difensive vengono ampiamente usati gli scudi, che dalle fonti iconografiche ci appaiono di varie forme: oblunghi, ovali, rotondi, già simili a quelli che renderanno famose nei decenni successivi e per tutto il XVI secolo le valorose fanterie “spagnole”. Interessante notare, in questa epoca, come l’uso dello scudo venga abbandonato dalle fanterie di tipo “svizzero”, impegnate nel maneggio della picca, mentre invece sarà usato ancora nelle fanterie di tipo “spagnolo”, armate di spada e scudo rotondo.
La prassi del combattimento delle fanterie, dissipato il fumo delle bombarde, si manifestava ancora a furia di armi da punta e da taglio, gli uomini d’arme – é vero – erano ormai difesi da protezioni di piastra giunte quasi al massimo del loro sviluppo storico; i fanti invece, e tutti coloro che in qualche modo si ritrovavano coinvolti nella mischia, difendevano i propri corpi con protezioni parziali: nella maggior parte dei casi un copricapo metallico e una protezione del busto che poteva andare dalla maglia di ferro alla corazzina, oppure nel migliore dei casi da pochi elementi di piastra.
Nel 1472 dal ducato di Milano giunsero in rinforzo di Firenze, impegnata nell’organizzare rapidamente le sue forze contro la ribelle Volterra 400 provvisionati di cui 200 erano scoppiettieri; Benedetto Dei descrisse questi provvisionati milanesi come “bellissima fanterìa da ghuerra”. Nello stessa mobilitazione del 1472 altre compagnie di fanti erano condotte da toscani e marchigiani, come la compagnia di 150 fanti guidata da Antonello e Francesco da Prato, o quella più numerosa di Guido da Urbino che portava 200 fanti. Nel 1478 militò in Toscana per la Repubblica di Firenze anche una compagnia di 173 soldati guasconi, venuti al seguito dei veneziani.
Si ritrovavano dunque a combattere sotto le stesse bandiere soldati delle più diverse origini, accomunati solo dalla riscossione mensile della stessa moneta; dalla parte avversa vigeva lo stesso criterio e quando poi accadeva che le fanterie dei campi opposti si incontrassero in combattimento, poteva succedere, come avvenne a Volterra nella notte tra il 16 e il 17 giugno 1472, che i soldati veneziani a guardia delle mura invitassero dentro i provvisionati milanesi che militavano per Firenze, per saccheggiare tutti insieme la misera città.
L’esercito aragonese pontificio e senese del 1478-79 aveva nei suoi ranghi almeno “2.000 fanti electi et cernuti”, a questi soldati professionisti i senesi affiancarono un migliaio di uomini a piedi con compiti prevalentemente di zappatori, anche se poi il cronista senese Allegretti vantò i suoi compaesani quali artefici della vittoria di Poggio Imperiale. Piero Pieri sottolinea come: “… era pur sempre questa fanteria (i “2.000 fanti electi et cernuti”) a decidere le vittorie di Poggio Imperiale (1479), Campormorto (1482), Ponte di Crevola (1487)”.
“senza perditempo alcuno di tempo”
Volterra, in posizione eccentrica rispetto al resto della rete viaria toscana, era sempre stata in qualche modo autonoma rispetto al potere fiorentino. Conquistata la prima volta dalle milizie fiorentine nel 1254, “con una bella e imprevista vittoria” manteneva una posizione subalterna rispetto a Firenze dal 1371, che però, data la distanza, i volterrani consideravano come indipendenza. Nel 1429, con l’estensione del catasto fiorentino alla città e territorio volterrano, si era avuta una violenta ribellione della città, irritata dall’imposizione del nuovo sistema tributario che di fatto vanificava l’indipendenza dei volterrani. La rivolta fu presto sedata dall’intervento armato fiorentino, Rinaldo degli Albizi e Palla Strozzi furono nominati commissari dell’impresa contro Volterra e il condottiero Niccolò Fortebraccio perugino, stanziato con le sue genti d’arme a Fucecchio, venne mandato contro Volterra; per l’occasione i commissari fiorentini mobilitarono come fanterie in armi gli abitanti del Valdarno di sotto e del pisano.
Nel 1472, a causa delle controversie sullo sfruttamento delle miniere di allume scoperte nel suo territorio, Volterra era insorta a difesa della propria autonomia politica ed economica. L’allume era materia prima fondamentale nell’industria della tintoria e prodotto ricercato sui mercati del tempo; i Medici stessi, gestivano attraverso il proprio Banco il commercio di questa materia prima, erano in società per la commercializzazione dell’allume e avevano fortissimi interessi economici in questo settore. Nel momento in cui Volterra si appellò alla sua antica autonomia, rivendicando la gestione autonoma delle proprie risorse minerarie, Lorenzo dei Medici non esitò, vedendo lesi i propri interessi e quelli dello stato, a decidere di scatenare la guerra per sottomettere la città di Volterra.
L’episodio del 1472, rovinoso per la città di Volterra, permette di visualizzare le caratteristiche organizzative e tecniche fondamentali di una campagna militare quattrocentesca, fra le quali emerge la rapidità della mobilitazione per raggiungere nel più breve tempo possibile a un risultato militare positivo che risolvesse con vantaggio sia le controversie economiche immediate sia le conseguenze politiche a media scadenza. L’abilità diplomatica fiorentina fece sì che le altre potenze regionali italiane fossero raggiunte dai propri emissari prima che giungessero quelli volterrani, cercando di impedire che uno stato italiano si schierasse apertamente in campo per Volterra, fatto che, alla lunga, avrebbe potuto far degenerare una contesa limitata alla Toscana in una guerra ben più vasta e dispendiosa. Era fondamentale per questo che Lorenzo e il suo entourage riuscissero a circoscrivere il conflitto con Volterra entro i limiti di un affare interno allo stato e, per questo, occorreva la massima rapidità.
L’ordine che la magistratura dei Venti di Guerra dette a Jacopo Guicciardini, commissario al campo, è significativo: “senza perditempo alcuno di tempo, havendo rispetto a dua cose principali, che si cominci donde si possi fare più fructo, et che si facci in modo sicuro et da non poter ricevere nè danno nè vergogna”.
In questo caso specifico, come altri casi analoghi, si trattava di concentrare il più rapidamente possibile le forze che si avevano a disposizione nel punto critico che si voleva colpire; nel caso della campagna del 1472, tutto appare svolgersi con l’ansia delle autorità fiorentine di fare presto. Circa al 5 maggio del 1472, dalle parti di Colle Valdelsa, erano già concentrati circa 3.000 fanti assoldati dai fiorentini; e le truppe rapidamente schierate da Firenze aspettavano l’arrivo del capitano generale Federico da Montefeltro da Urbino, con il suo seguito di gente d’arme i “ciento Ettorri in sug[l]i arcioni”, rammentati da Benedetto Dei; nel frattempo i commissari “in exercitu” Bongianni Gianfigliazzi e Jacopo Guicciardini provvedevano ad ammassare anche artiglieria a Colle prima di muovere contro la città di Volterra. Nell’insieme Firenze stava mobilitando un esercito ricco di fanteria, circa 10.000 fanti con 2.000 cavalieri, Benedetto Dei tramanda: “E venne in chanpo 30 chonestaboli li quali aveano fanti diecimila o più e altra fanteria chomandate e da Pistoia e dal Borgho e d’Arezo e da Chortona e di tutto ‘l paese e tterre in quel di Pisa e di quel di Casentino e tutto lo Valdarnno e di sotto e di sopra, di modo che d’intorno a la città di Volterra si ritrovava da ogni banda perssone 30 migliaia.”
Tra i numerosi capitani assoldati dai fiorentini che accamparono a Colle possiamo vedere in particolare gli effettivi che almeno tre di costoro guidavano: Jacopo della Sassetta conduceva una compagnia mista di 100 cavalli e 100 fanti “bellisima giente d’arme e a punto”; Antonello e Francesco da Prato, capitani di fanteria che guidavano 150 fanti; Guido da Urbino, invece con 200 fanti. Altre compagnie assoldate dai fiorentini erano comandate dai capitani Pietro Corso e Lodovico Corso, alla testa di mercenari della Corsica, terra povera che, al pari dell’Albania, in questo e nel secolo successivo fornì sovente uomini disposti a farsi assumere dal migliore offerente. Di altri capitani, grazie al lavoro di Enrico Fiumi, conosciamo i nomi ma non il numero di uomini da loro condotti, essi provenivano dall’Emilia come Bartolomeo da Modena; altri genericamente dall’area germanica come Guglielmo Tedesco; altri capitani venivano dall’aretino, tipica area di reclutamento fiorentino, come il marchese Ugolino del Monte Santa Maria di nobile famiglia tradizionalmente legata al mestiere delle armi; dalla Valtiberina proveniva Jacopo d’Anghiari, città legata al ricordo del celebre e sfortunato capitano Baldaccio d’Anghiari assassinato nel 1440; e dall’Umbria Bernardino da Todi, al servizio di Firenze dal 1467. Vanno ricordati infine Matteo Langhiarino e Giovan Marco di Sicilia. Dal ducato di Milano giunsero 400 provvisionati con 200 scoppiettieri, insieme a Gabriello e Spinetta Malaspina. Anche il Papa Sisto IV partecipò all’impresa voluta fortemente da Lorenzo il Magnifico mandando all’esercito il condottiero Virginio Orsini, con 5 squadre di cavalli, una compagnia di 100 fanti e in seguito 800 soldati a piedi e a cavallo.
Il 14 maggio del 1472 Federico da Montefeltro, duca di Urbino, giunse al campo di Colle dove ricevette dalle autorità fiorentine l’ennesima esortazione a far presto: “Ultimare l’impresa con più presteza che è possibile: perchè nella presteza, al parere nostro, v’è dentro molta più reputatione et più sicurtà. El lungo male ha più pericolo; el buon medico il più che e’ pur si discosta dai pericoli, et stima la sua reputatione essere nella presteza della liberatione”. Presto queste truppe mossero verso i luoghi forti tenuti dai volterrani occupando subito le Pomarance, il 20 maggio le truppe fiorentine occupavano Montegemoli, passavano il fiume Cecina e piantavano il campo a Mazzolla; il 24 maggio l’esercito già marciava in vista delle pendici di Volterra.
Nel corso della storia millenaria di Volterra i suoi abitanti hanno sempre orgogliosamente fidato sulla posizione della città, posta com’è sull’alto di un pianoro le cui pareti precipitano scoscese e dirupate sulla pianura; le arcaiche mura etrusche dal grande circuito e poi quelle medievali, più ridotte d’estensione, hanno sempre illuso i volterrani e i loro nemici della virtuale imprendibilità della città, arcigna e fiera. Nel 1472, da febbraio a maggio, i volterrani apprestarono così febbrilmente le loro difese, innanzitutto presidiando le mura della città, mobilitando tutti i cittadini atti alle armi, armandoli in parte di balestre e il resto di armi da punta e da taglio.
Nel contempo i volterrani cercavano di arruolare fanteria e cavalieri da ogni parte per integrare le difese. La contingenza politica era però sfavorevole a Volterra: già abbiamo visto come il duca di Milano e lo stesso papa Sisto IV avevano mandato truppe a Lorenzo il Magnifico. Venezia era duramente impegnata contro i Turchi e poco poteva fare per opporsi in qualche modo alla politica fiorentina; arrivarono a Volterra solo pochi soldati veneti comandati dal capitano Giovanni Longo, probabilmente proprio colui che in varie relazioni viene chiamato “il Matrice”. Secondo il Machiavelli i volterrani riuscirono a assoldare circa 1.000 soldati “nelle difese lenti” e, a causa delle contingenze politiche, ottennero poca gente da Napoli. Ser Naldino Naldini volterrano riuscì a assoldare circa 800 uomini da Alfonso di Calabria. In quel maggio del 1472, mentre i volterrani aspettavano in armi sulle mura l’arrivo annunciato dell’esercito schierato in campo da Firenze, si dettero a costruire ulteriori difese nei pressi della città, come fortificazioni in legno e terra, le “bastìe”. Queste erano veri e propri castelli costruiti in legno e terra, secondo una prassi ormai secolare che aveva visto il suo massimo esplicarsi in Toscana nelle innumerevoli guerre dei due secoli precedenti. Chiamata in vari modi, battifolle o bastita, la bastìa altro non era che una fortificazione provvisoria costruita in legname, simile, per rimandare a una celebre immagine, a quella dipinta a Siena da Simone Martini sullo sfondo dell’affresco dove campeggia la figura di Guidoriccio dei Fogliani all’assedio di Montemassi. I volterrani allestirono dunque alla meglio tre bastìe e il 24 maggio del 1472 le truppe fiorentine si lanciarono all’attacco delle tre bastìe occupandole in breve ma lasciamo la parola alla voce di Benedetto Dei,: “E tuttavia il chanpo ingrossava e chrescieva, quando e’ giunsono otto bonbarde grosse trainate e chondotte ai chommessari de’ ghuastatori e dell’amunizioni, li chuali furono eletti e diputati in detta ghuerra. E piantato le bonbarde ne[i] lluoghi che ‘l degnissimo chapitano avea ordinato e disegniato, e chominciato a dar drento, li Volterrani assai isbighotirono; e assai più isbighotirono di nuovo, ché perderono in quel dì medesimo una bastìa ch’egli avìen fatto allato alle mura, alla giunta, ché giunse dal ducha di Milano le suo giente, chon tante grida e chon tanto furore e chon tanto enpito, che pareva che ‘l mondo avessi a sobbissare. E mai si restava di dì e di notte e a ogn’ore che lle grida non si sentissino; chi dicea e gridava: “Marzocho, Marzocho!”, e chi gridava: “Chiesa, Chiesa!”, e chi dicea: “Ferro, Ferro!”, e chi dicea: “Ducha, Ducha!”, e chi dicea: “Palle, Palle!”, li qua’ nomi erono tutti nimici chordiali de’ Volterrani drento assediati.”
Le grida di guerra rammentate da Benedetto Dei rendono bene l’idea della moltitudine e frammentazione di genti che combattevano le guerre di quest’epoca: fiorentini, gente levata dal contado sottomesso a Firenze, parziali dei Medici, provvisionati del duca di Milano, gente d’arme del Papa, ognuno con nella gola il grido che più animava lo slancio dell’assalto, dove spicca quel “Ferro, Ferro!” che bene illustra la durezza della guerra. Con l’attacco alle bastie i fiorentini fecero circa 200 prigionieri e i volterrani si rinchiusero nelle mura, sottoposti al fuoco continuo delle artiglierie ormai ben piazzate a battere Volterra, da Sant’Andrea a porta a Selci fino al cassero della cittadella dove ora sorge il Maschio di Volterra.
Lorenzo dei Medici scriveva al Montefeltro: “la fede nostra è nella virtà di codesto capitano et in codeste bombarde et in coteste genti”, ma la volontà di ottenere una rapida vittoria faceva scrivere al Magnifico anche queste parole: “non havendo tanto riguardo alla conservatione della città, che non s’abbi molto maggior al vincere in qualunche modo sia”. Luca Landucci ci informa che già dal primo di giugno i fiorentini avevano rotte due bombarde, il 9 dello stesso mese esplose un’altra bombarda ma i volterrani erano prossimi a capitolare; il 16 giugno nella chiesa di San Lazzaro i priori e i Dieci di Balìa di Volterra stipulavano i patti della resa con Federico da Montefeltro e i commissari fiorentini. Nella notte tra il 16 e il 17 giugno i volterrani tentarono un accordo coi fiorentini per aprire una porta della città per far entrare in Volterra i soldati fiorentini, però accade l’imprevisto, perchè, nella notte dalle brecce aperte nelle mura dal fuoco delle bombarde i volterrani “fecero entrare segretamente de’ soldati del duca d’Urbino e miserli in un palazzetto per fortificarsi e per dar la terra a’ fiorentini. E veduto questo un conestabile de’ volterrani, che si chiamava el Veneziano, il quale stava alla guardia a’ ripari delle mura, cominciò a chiamar dentro li sforzeschi del duca di Milano, cioè provvisionati; e come furono dentro cominciò a gridare: Sacco, Sacco; e tutta volta quelli del campo entravano dentro, in modo che che infino a vespero non fecero altro che robbare la terra”. Per tutta la giornata del 18 di giugno le truppe al soldo dei fiorentini corsero la città mettendola a “saccomanno”; Federico da Montefeltro, cui la situazione era sfuggita di mano, non fece nulla per fermare la furia dei soldati anzi, concesse loro l’intera giornata per depredare Volterra. La città fu così spogliata completamente con tutto il seguito di orrori che un saccheggio indiscriminato comportava per la popolazione civile: ruberie nelle case, uccisione di inermi, violenze su donne e bambini, furto di derrate e bestiame, incendi appiccati a spregio e quanto di peggiore si possa immaginare.