Buonconte, il Guerriero di Montefeltro (2ª parte)
25 Ottobre 2007Jus Primae Noctis – Bruno Normanno
25 Ottobre 2007In questo contesto si colloca un altro episodio minore di storia militare, relativo alla politica di restaurazione dell’autorità temporale della Chiesa intrapresa da papa Martino V e proseguita poi da Sisto IV. Azione che mirava a destituire le varie piccole signorie formatesi sulle terre del Patrimonio di San Pietro. L’esercito della Chiesa mosse guerra dunque contro Todi e Spoleto, assediando quindi nel giugno 1474 Città di Castello difesa da Niccolò Vitelli: “omo bilichoso e amicho prefetto della gran chasa de’ Medici e de’ principali del ghoverno della città fiorentina”. Niccolò Vitelli, signore di Città di Castello, sostenne un memorabile assedio di 80 giorni per arrendersi infine “a patti”. Papa Sisto era alleato con Ferdinando di Napoli e le sue truppe erano guidate da Federico di Urbino, lo stesso condottiero responsabile del sacco di Volterra e che ora, mutato campo, volgeva il suo bastone di comando conto i fiorentini. Insieme al capitano feltresco militavano anche Virginio Orsini, Francesco da Sassatello, il marchese del Monte Santa Maria, tutta gente che due anni prima aveva militato per Firenze contro la sventurata Volterra.
Nel 1475 Firenze entrò in lega con Venezia e il duca di Milano, le alleanze degli stati italiani erano cambiate ancora una volta ma in questo frangente Firenze si trovava contro lo stato pontificio di Sisto IV e il regno di Napoli. Con la congiura del Pazzi fallì il tentativo di assassinare Lorenzo dei Medici e la repressione che questi ordinò dopo l’attentato fu presa a pretesto dal papa per muovere guerra contro le autorità fiorentine. Il primo giugno del 1478 papa Sisto IV lanciò la bolla di scomunica contro Lorenzo de’Medici, il Gonfaloniere, i Priori, gli Otto di Balìa, dopo un mese giunse la dichiarazione di guerra e verso la metà del luglio 1478 le avanguardie dell’esercito messo in campo da Ferdinando d’Aragona e Sisto IV devastavano le campagne intorno a Montepulciano. La guerra del 1478-79 è stata magistralmente analizzata da Piero Pieri al cui lavoro si rimanda per la descrizione delle ostilità e la relativa bibliografia, in questa sede basterà osservare qualche particolare ai fini di questa breve rassegna sul come veniva condotta la guerra in Toscana nella seconda metà del XV secolo.
In questo frangente politico Firenze poteva fare poco affidamento sull’aiuto dei suoi alleati maggiori: Venezia era impegnata a fronteggiare i Turchi e Milano aveva da pensare alla riconquista di Genova, ribellata al dominio sforzesco. I confini del dominio fiorentino erano minacciati da un esercito invasore di proporzioni rispettabili, la repubblica di Siena si schierò naturalmente contro Firenze e anche dalla parte del Chianti la minaccia armata diventò concreta. L’esercito messo insieme alla meglio da Firenze dovette fronteggiare il nemico su due fronti distinti: il Chianti e la Val di Chiana, riuscendovi grazie alla resistenza di luoghi forti come la Castellina, Cacchiano, Casole, Colle Val d’Elsa ed alla manovra strategica quando, dopo un anno di guerra, finalmente giunsero i rinforzi da Venezia e Milano.
L’episodio di Colle Val d’Elsa rappresenta il culmine della guerra dei Pazzi nel 1479; dopo la ripresa primaverile delle ostilità, placate secondo l’uso medievale durante l’inverno, la cavalleria braccesca al soldo dei fiorentini prese l’iniziativa lanciandosi in una audace scorreria verso Perugia e battendo a Passignano sul Trasimeno il napoletano Matteo da Capua. Aragonesi, pontifici e senesi, dopo aver perduto e riconquistato alla fine di giugno Casole d’Elsa,
muovono nell’estate truppe dal fronte della Val di Chiana e, con un assalto di fanterie aragonesi e senesi, battono decisamente il 7 settembre 1479 i fiorentini acquartierati al campo di Poggio Imperiale, l’odierna Poggibonsi. La disfatta di Poggio Imperiale costringe i fiorentini a restare sulla difensiva mentre l’esercito degli alleati si lancia in razzie e saccheggi sia sul fronte della Chiana che su quello del Chianti. Il 24 settembre del 1479 Federico di Urbino è con le sue truppe sotto le mura di Colle con tutta la forza dell’esercito alleato sceso in campo contro Firenze.
Nel duro assedio che Colle Val d’Elsa ebbe a sostenere per più mesi contro le forze concentrate degli aragonesi, pontifici e senesi, animatori della difesa furono i 500 fanti veneti, già veterani della difesa del Friuli contro i Turchi, aiutati da molta artiglieria minuta e due bombarde grosse, oltre che dagli abitanti stessi di Colle che odiavano con tutto il cuore i senesi che li stringevano d’assedio. Una volta che una terra era stretta d’assedio poche erano le risorse sulle quali contare, l’incapacità sostanziale degli eserciti di soccorrere una terra amica assediata viene testimoniata con efficacia dalla penna di Luca Landucci descrivendo un assedio dell’anno precedente: “E a dì primo d’agosto 1478, e nimici presono Lamole e andorone presi più di cento persone, e tuttavolta bonbardavano la Castellina. L’ordine de’ nostri soldati d’Italia si è questo: tu atendi a rubare di costà e noi faremo di quà; el bisogno d’accostarci troppo non è per noi: lasciono bonbardare parecchi dì un castello e non conparisce mai soccorso”. Significativa la chiusa del discorso con la sfiducia mista alla minaccia profetica pronunziata dal buon Landucci: “Bisogna venga un dì di questi Tramontani che v’insegnino fare le guerre”.
In verità, una volta chiusi dentro una terra gli assediati non avevano molte probabilità di essere soccorsi; per far questo sarebbe occorso che l’esercito amico si radunasse in fretta per muovere celermente verso il luogo dell’assedio ma gli eserciti di questo periodo erano lenti. Vedremo più estesamente sotto come si muovevano lentamente le bombarde e lo stesso grosso dell’esercito sotto l’autorità del capitano generale aveva bisogno di un campo trincerato al riparo del quale i suoi uomini d’arme potessero scendere schierati a battaglia, per poi tornare al campo a rinfrescare cavalli e cavalieri. La guerra si combatteva d’estate, gli uomini combattevano coperti da pesanti armature che occorreva tempo per indossare, i cavalli si stancavano facilmente e nonostante la scuola braccesca avesse insegnato come far ruotare continuamente gli squadroni per opporre al nemico forze costantemente fresche, non era possibile intraprendere spesso azioni veloci. Per questo venivano usate forze apposite: squadre di cavalieri armati alla leggera e capaci di compiere rapide incursioni nel territorio nemico, sul finire del XV secolo gli stradioti veneti furono una buona cavalleria leggera da scorreria. Con queste parole li descrisse il veneto Marin Sanuto: “Stratioti sono grechi, vestiti con casacche et cappelli in capo: varii portano panciere, ma una lanza in mano, una mazoca et la spada da lai, coreno velocissimamente, stanno continuamente sotto di lor cavalli… sono optimi a far corarie, dar guasto a paesi, investir zente…. et non fanno presoni ma taglia la testa, et ha per consuetudine uno ducato per una dal capetanio. Manzano poco, et di tutto si contentano, purché li cavalli stia bene”.
Colle Valdesa resistette sette mesi all’assedio degli alleati, attirando su di se tutta la furia del multiforme esercito accampato sotto le sue mura: i soldati del papa ansiosi di rivincita dopo la sconfitta subita sulle rive del Trasimeno, le valide fanterie napoletano-aragonesi reduci dalla vittoria del Poggio Imperiale, le milizie senesi decise a sfogare i consueti rancori di campanile.
“… giorno e notte mai restando.”
Nella prassi bellica quattrocentesca prima preoccupazione degli incaricati della sicurezza dello stato era quella di difendere i luoghi forti posti alle frontiere. Lo stato fiorentino manteneva un certo numero di soldati destinati alla guarnigioni più o meno stabili delle varie piazze, i presidi cioè dei castelli e fortezze poste ai confini dello stato. Fu costante preoccupazione dei governanti dello stato fiorentino, e significativamente di Lorenzo dei Medici, quella di erigere fortezze a guardia dei confini – ma non solo – anche le città soggette e potenzialmente inquiete, quali per esempio Volterra, erano guardate da una fortezza che in qualche modo garantisse a Firenze il controllo del dominio sulle città soggette. Circa al 1450 erano state fortificate Staggia e San Gimignano, sul collinare confine senese; Montecarlo su quello lucchese; Castrocaro in Romagna. Le mura di Colle Val d’Elsa erano state fortificate a partire dal 1465. Dopo la sottomissione violenta di Volterra, nel 1472, Lorenzo il Magnifico avviò un programma sistematico di fortificazioni che vide sorgere in breve tempo la rocca nuova di Volterra, meglio conosciuta come Maschio. Nel timore della guerra furono intrapresi lavori un po’ ovunque per riattare le vecchie cinte murarie dei luoghi forti alle mutate tecniche ossidionali: lavori spesso portati a termine in tutta fretta. Nel 1479, dopo la guerra detta “dei Pazzi”, venne nuovamente fortificata Colle Val d’Elsa, distrutta dal bombardamento delle milizie aragonesi, pontificie e senesi. Sempre negli anni successivi alla guerra dei Pazzi furono erette le mura nuove di Empoli, piazzaforte di rilevanza strategica nel Valdarno di sotto; il castello di Brolio nel senese e, a nord, le fortezze di Sarzana e Pietrasanta. Infine, negli anni che precedono la morte del Magnifico, venne fondata la fortezza del Poggio Imperiale sopra Poggibonsi, nello stesso luogo che aveva visto la disastrosa sconfitta fiorentina del 1479 ad opera delle fanterie aragonesi.
Rari i casi di leva di milizie locali ché, per il “principe”, erano spesso “dubie e infideli” ma, per i compiti di guarnigione, erano spesso assunti sudditi della Repubblica, gente originaria dalle tradizionali aree di reclutamento dello stato fiorentino come, ad esempio, i montanari casentinesi e romagnoli che, fin dai secoli precedenti, fornivano buone braccia adatte al mestiere delle armi. Un esempio del 1474 è quello dei fanti romagnoli condotti di Niccolò Mignone da Marradi, stanziati di guarnigione a Volterra dopo la conquista fiorentina del 1472. Il presidio delle fortezze era così garantito da truppe di fanteria, spesso pochi uomini incaricati di risiedere all’interno delle mura e torri, cui spettava inoltre il mantenimento delle dotazioni difensive di cui le fortezze erano dotate. Armi da fuoco, munizioni “da fuoco e da bocca”, balestre, schioppi, paglia, polvere da sparo e palle.
Le città soggette e le fortezze, presidiati da fanterie e artiglierie, vedevano le proprie popolazioni allertate e occupate a fare i lavori necessari all’ulteriore fortificazione della piazza, con tutto il lavorìo che stava dietro a questa impellente necessità: scavo di trincee, rafforzamento delle mura con apprestamenti difensivi di legname e terra, accumulo di riserve d’acqua e cibo per uomini e cavalli; eventuale organizzazione in compagnie armate dei maschi atti alle armi per difendere la terra ma, più spesso, mobilitate in lavori da genieri.
Principi e signori impiegavano i propri artisti nella direzione degli assedi e degno di nota la contrapposizione che si verificò sul campo proprio all’assedio di Castelllina dell’estate 1478, in quei 24 giorni di assedio Francesco di Giorgio Martini puntava le artiglierie pontificie di Giuliano della Rovere contro le mura del borgo apprestato a difesa da Giuliano da Sangallo, lì mandato da Lorenzo dei Medici a difendere il confine chiantigiano.
Nel breve periodo di cui si tratta il carattere della guerra di assedio è già sostanzialmente mutato: dalla prassi “antica”, quella che nei secoli precedenti aveva caratterizzato gli assedi ai castelli, si era passati ad una guerra dove l’uso massiccio delle armi da fuoco aveva cambiato sostanzialmente la poliorcetica. Per usare una frase fatta e vieta il Quattrocento è un “periodo di transizione” e già Niccolò Machiavelli, raccontando della guerra del 1452, ironizza sui vani assedi di quel periodo dove però nel caso specifico ancora non si riusciva a dispiegare in tutta la sua ampiezza la forza distruttiva del fuoco delle artiglierie; vale riportare la citazione per esteso: “… se ne andorono (gli aragonesi) a campo alla Castellina, castello posto a’ confini del Chianti, propinquo a dieci miglia da Siena, debile per arte e per sito debilissimo; ma non potette perciò queste due debolezze superare la debolezza dello esercito che lo assalì, perché dopo quarantaquattro giorni che gli stette a combatterlo se ne partì con vergogna. Tanto erano quegli eserciti formidabili e quelle guerre pericolose, che quelle terre le quali oggi come luoghi impossibili a difenderli si abbandonano, allora come cose impossibili a pigliarsi si difendevono”.
La cesura di comodo che spesso si avverte negli scrittori di cose militari, ovvero la divisione meccanica tra la prassi militare prima e dopo l’avvento dell’artiglieria a polvere, è spesso superficiale: in realtà il progresso dell’artiglieria fu un processo che si sviluppò nell’arco temporale di almeno cento anni, circa 4 o 5 generazioni umane; dal tempo, per fare qualche nome, dalle stagioni dicevo di un Francesco Petrarca vecchio fino alla giovinezza di Lorenzo dei Medici. La poliorcetica, o arte dell’assedio, vantava illustri tradizioni nell’occidente medievale; nel corso del tempo ingegneri e tecnici di varia estrazione avevano sempre posto le proprie capacità al servizio dei vari potentati, l’arte di costruire macchine da guerra secondo la tecnologia corrente aveva visto fiorire progetti di ogni tipo per macchine da lancio e da percossa, ordigni progettati cercando di sfruttare al massimo le possibilità offerte dalla forza delle leve e dalla torsione di un fascio di corde attorcigliate. Mangani, trabocchi, catapulte in genere, erano tutte macchine costruite in legno con l’aiuto di pochi elementi metallici nei meccanismi di caricamento e lancio; ordigni sviluppati dalla stessa tecnologia usata per costruire le navi e le macchine per il sollevamento delle pietre nella costruzione di palazzi e cattedrali. Ancora nel Quattrocento intelletti come quello di Leonardo da Vinci spendevano energie nel disegnare e progettare ordigni basati sullo sfruttamento di leve e archi mentre, da almeno un secolo, oscuri artigiani, nati come fonditori di campane, colavano leghe di metallo dentro forme di terra per ricavarne canne di bronzo, cannoni ottenuti legando insieme con cerchioni di ferro un fascio di barre metalliche, dove pressare polvere pirica e infilare poi pallottole di pietra che il solo avvicinare di un tizzone avrebbe scagliato lontano con strepito inaudito.
“e venne in chanpo una bombarda chiamata nè patti nè chonchordia, grossa”
Con queste parole Benedetto Dei, singolare figura di trafficante e viaggiatore, ricorda il nome delle bombarde fiorentine schierate nella guerra del 1452 contro Alfonso d’Aragona; il frutto nuovo dell’arte della guerra: l’artiglieria e nella fattispecie le grosse bombarde di ferro che sparavano palle di pietra, viene fissato nella nostra memoria dai nomi che Benedetto Dei ci ha tramandato: “ispaza chanpagnia”, “la leonessa”, “l’achatta patti”, “la vettoria cho l’ulivo”. In quegli stessi anni, nel 1453, il sultano Mehmet II per la conquista di Costantinopoli, aveva fatto fondere una bombarda gigantesca, per il cui traino occorrevano cinquanta paia di buoi e settecento serventi, capace di sparare palle del peso di 6 quintali. La bombarda esplose dopo pochi tiri, come spesso succedeva per l’inesperienza dei serventi che non riuscivano a ben dosare le polveri da sparo rispetto alla lega metallica in cui era fuso il pezzo, però il fatto significativo è che il sultano fece ricorso a tecnici occidentali per riuscire a fondere la sua artiglieria. Nell’occidente cristiano l’uso dell’artiglieria era già ampiamente diffuso, specie nell’Europa nord occidentale; ancora oggi si può ammirare nella piazza del mercato di Gand “De dulle Griet”, in italiano “Margherita la pazza”, un pezzo lungo più di 5 metri pesante 16 tonnellate e 400 kg e del calibro di 640 mm. Nelle tavole stampate dal Promis, Francesco di Giorgio Martini alla fine del Quattrocento dava per le bombarde una lunghezza variabile del pezzo da 15 a 20 piedi (circa 4,5-6 m) e un proiettile da 300 libbre; per la bombarda mezzana 3 metri circa di lunghezza con una palla del peso di 50 libbre; gli altri pezzi dell’ideale parco di artiglieria disegnato da Francesco di Giorgio allungavano la volata del pezzo riducendone il calibro, il basilisco, ad esempio, doveva essere lungo fino a 25 piedi ma sparava palle di sole 20 libbre, il passavolante lungo 18 piedi con palle da 16 libbre, e così scendendo fino allo scoppietto, arma da fanteria lunga da 2 a 3 piedi e sparante proiettili pesanti da 4 a 6 “octavi” di libbra.
Da almeno un secolo, prima come novità registrata dai cronisti e poi via via con sempre maggior fragore, il rombo, il tuono, lo scoppio di cannoni, bombarde, schioppi, faceva udire alle popolazioni, normalmente atterrite dalla furia della guerra, gli scoppi della polvere da sparo pressata dentro anime di metallo, che lanciavano con fragore proiettili di pietra o ferro contro le postazioni nemiche. Castelli dalle mura verticali pensate per la difesa piombante, torrioni che si ergevano su solide fondamenta scavate nella roccia viva di un poggio, mura fatte di massi squadrati legati dalla calce, crollavano miseramente dopo una serie di colpi di cannone assestati con precisione contro un determinato punto delle fortificazioni.
Nella seconda metà del Quattrocento l’uso dell’artiglieria era ormai generalizzato, fonditori di cannoni, scalpellini addetti a sagomare palle di pietra, maestri bombardieri seguivano i numerosi eserciti dell’epoca, ingegnandosi di favorire i principi e i vari “signori” con i propri preziosi servigi. Le artiglierie dell’epoca, almeno quelle di grosso calibro, che avevano una notevole efficacia contro le mura, non erano ancora montate su ruote; bombarde e palle erano trasportate faticosamente su carri, trainati a forza di buoi e bufali aggiogati a coppie. Una volta giunte sul posto dove l’ingegnere aveva fissato la postazione migliore per battere il bersaglio, le bombarde venivano piantate in terra, veniva cioè scavato il terreno, costruita una piazzola di robuste travi che a sua volta era subito protetta da palizzate, gabbioni di terra e una robusta saracinesca di legno, alabile a forza di funi che serviva a due scopi: celare il lungo lavoro dei bombardieri e proteggere gli stessi dal tiro avversario. Una volta che la bombarda era stata piantata, puntata e caricata, la saracinesca veniva alzata e il bombardiere dava fuoco alle polveri, scaricando il pezzo. La lenta e complessa procedura permetteva di sparare pochi colpi durante una giornata; Luca Landucci, cronista contemporaneo, riferisce che contro le mura di Rencine, durante la notte dal 22 al 23 luglio 1478, furono sparati solo 3 colpi dall’unica bombarda senese piantata di fronte alle mura del piccolo borgo difeso dai soldati fiorentini. Nei sette mesi dell’assedio che ebbe a subire Colle Val d’Elsa, il duca di Calabria riuscì a far sparare 1024 colpi delle sue bombarde, una delle quali era da 380 libbre, contro la sfortunata ed eroica città, parecchi per l’epoca, un bombardamento terrificante e devastante che “disfece la maggior parte delle mura”, ma solo una media di 4 o 5 furono i colpi sparati al giorno dai numerosi pezzi d’artiglieria puntati tutti contro Colle.
Il fragore delle polveri faceva levare alti i fumi della combustione sugli ordigni da sparo, l’impatto dei proiettili contro le mura frantumava le palle di pietra in miriadi di schegge che schizzavano a colpire uomini e bestie, ferendo le carni in modo inusitato; bruciando e incendiando stoppie, tetti di paglia, covoni di fieno abbarcati e quant’altro di combustibile veniva colpito. La percossa delle palle di pietra contro le mura di città, villaggi e castelli, crepava le strutture difensive delle cinte murarie fino allora ritenute, nell’opinione comune, solide e imprendibili. Le mura costruite in bozze di pietra, anche le più spesse, sotto la percossa continua delle palle di bombarda venivano incrinate fino al crollo di interi settori di cortina, aprendo così brecce dove le fanterie potevano essere lanciate all’assalto. Una volta aperta una breccia nel circuito murario le genti assediate dovevano difendersi dall’attacco nemico in combattimenti corpo a corpo, dove la poca gente che si trovava a difendere la piazza non poteva più far affidamento che sul proprio braccio e valore, spesso impari al numero del nemico assediante.
Colle Val d’Elsa, difesa strenuamente dai suoi abitanti e dai 500 fanti veneziani reduci dalla guerra contro i Turchi nelle fortezze di Dalmazia e del Friuli, dopo un primo bombardamento di tre giorni fu assaltata il 3 ottobre 1479 dalle truppe alleate che furono respinte dopo ben cinque ore di furiosi combattimenti. Dopo un paio di settimane di ulteriore bombardamento fu ordinato un secondo assalto di fanteria, respinto anch’esso dai valorosi colligiani e veneziani, aiutati stavolta da una sortita fiorentina dal campo di San Gimignano che aveva preso alle spalle gli alleati. Il 19 ottobre fu dato il terzo assalto alle mura sbrecciate di Colle ma anche stavolta, dopo quattro ore di mischia, i soldati aragonesi, senesi, umbri e montefeltrini dovettero tornare indietro. Il quarto e ultimo assalto fu sferrato il 21 ottobre ma, secondo le parole di Emanuele Repetti: “quanto fu per gli assalitori più feroce il conflitto, altrettanto riescì per essi più micidiale e sanguinoso; talchè, senza dire de’ morti, il numero dei feriti fu tale, che di loro si riempirono tutti gli ospedali di Siena”.
La tenace resistenza di Colle Val d’Elsa esaurì le risorse offensive dell’esercito alleato, nonostante la cacciata delle bocche inutili e la resa finale della città il 14 novembre 1479, le truppe di Alfonso duca di Calabria, quelle di Federico da Montefeltro e tutte le milizie scese in guerra contro lo stato fiorentino non erano più in grado di proseguire l’azione offensiva verso Firenze. Il lungo assedio di Colle aveva fatto passare troppo tempo e si annunciava ormai la stagione fredda e piovosa, autunno e inverno, durante i quali le operazioni di guerra rallentavano per cause di forza maggiore. Il 26 novembre venne raggiunta una tregua tra i belligeranti e le varie soldatesche cercarono di organizzarsi per passare l’inverno nei quartieri che gli ufficiali addetti avevano fissato. Placato il frastuono delle bombarde, seppelliti i morti, pagati i soldati, potevano rientrare finalmente in gioco le migliori menti diplomatiche e il 5 dicembre 1479 Lorenzo de’ Medici s’imbarcava a Livorno per navigare alla volta di Napoli. Le galere che entrano in linea di fila e a forza di remi nel porto di Napoli, tutte pavesate con le bandiere di Firenze, di Francia e di Aragona in segno di onore, bene rendono l’idea del trionfo diplomatico di Lorenzo dei Medici che, pur battuto sul piano militare, riuscì il 6 marzo 1480 a stipulare una pace separata con re Ferdinando di Napoli.