Jus Primae Noctis – Bruno Normanno
25 Ottobre 2007Lo scudo e la Città di Roma – M. Giuliani
25 Ottobre 2007Circa 30 anni prima, al tempo di Montaperti, l’esercito fiorentino avanzò nel territorio senese mandando avanti prima gli arcieri e i balestrieri Fiorentini, poi la schiera dei cavalieri dei tre sestieri di Oltrarno, Borgo e San Pancrazio insieme ai Pratesi, quindi i fanti di questi sestieri. Dopo questa prima gruppo di cavalieri e fanti dovevano seguire i cavalieri degli altri tre sestieri insieme ai Lucchesi e, appresso, i fanti corrispondenti; ultimi venivano i cavalieri alleati e, a chiudere, i loro fanti in retroguardia.
Il movimento di un esercito così numeroso attraverso i sentieri che scendevano dalla Consuma verso il Casentino non doveva essere impresa facile, a quell’epoca non esistevano strade carreggiabili: pascoli e boschi erano attraversati dai viottoli scavati dalle pecore durante le transumanze e ogni guado di torrente, tra balze rocciose e fossi, era un ostacolo che rallentava la marcia di un numero così grande di uomini e bestie. E’ probabile che le truppe abbiano seguito itinerari diversi per scendere verso il piano di Campaldino, sia seguendo il pendio del poggio che degrada verso Borgo alla Collina, sia infilandosi nella valle scavata dal fosso di Caiano, passando sotto al castello di Battifolle, per raggiungere la valle del Solano dominata da Castel San Niccolò. Ogni via di accesso al Casentino era guardata da un castello, a quelli ora rammentati vanno aggiunti Romena e Montemignaio, che l’esercito dei guelfi doveva, se non assediare, almeno assicurarsi e sorvegliare per non avere spiacevoli sorprese alle spalle. Dino Compagni racconta: “passarono per Casentino per male vie; ove, se avessono trovati i nimici, arebbono ricevuto assai danno: ma non volle Dio.”
L’esercito nemico era ancora lontano, durante la discesa verso il Casentino i Capitani di Guerra dell’oste guelfo sapevano che i ghibellini erano in marcia da Arezzo verso Bibbiena, a difesa dei castelli dei Guidi e degli Ubertini, nel tentativo di evitare che l’esercito guelfo rovinasse attraverso tutto il Casentino aprendosi la strada verso Arezzo. E mentre le truppe fiorentine e guelfe scendevano dalla montagna per dilagare in Casentino e spingersi poi avanti verso l’Arno dove questo si unisce alle acque del Solano, i cavalieri ghibellini risalivano la valle dell’Arno verso Bibbiena e penetrando in Casentino, con l’intento di guadagnare una posizione adatta a fronteggiare l’esercito nemico.
Nell’esercito che stava muovendo da Arezzo militavano i grandi cavalieri ghibellini dell’epoca: Guiderello di Alessandro da Orvieto, “nominato capitano”, teneva alta sulle truppe l’insegna imperiale e dietro l’aquila nera in campo d’oro sventolavano tutte le insegne di Arezzo: le sue quattro porte cittadine, le bandiere del podestà del Comune sotto le quali cavalcava Guido Novello dei conti Guidi, un uomo di circa 60 anni circondato dalle sue masnade; veniva poi l’emblema del vescovo di Arezzo Guglielmino degli Ubertini, “il quale fu uno grande guerriere” e che però era un vecchio settantenne, anch’egli seguito dai suoi fedeli e da tutta la schiera di nipoti e clienti. I maggiorenti ghibellini sospettavano del Vescovo per la sua condotta ritenuta incline al tradimento ma egli era stato difeso da suo nipote Guglielmino di Ranieri dei Pazzi di Valdarno, detto Guglielmo Pazzo, “il quale fu il migliore e ‘l più avvisato capitano di guerra che fosse in Italia al suo tempo”.
Gli altri capi dei ghibellini cavalcavano dietro al giovane capitano di guerra della città di Arezzo, Bonconte, figlio del conte Guido da Montefeltro, accompagnato da suo fratello Loccio. Bonconte da Montefeltro e Guglielmo Pazzo erano probabilmente gli effettivi capitani di guerra dell’esercito ghibellino, famosi per le molte battaglie vinte e trionfatori nella campagna dell’anno precedente: erano infatti gli uomini che avevano stragiato i fatui Senesi alle Giostre del Toppo.
E dietro questi due campioni della causa ghibellina venivano ancora Ranieri di Ranieri, fratello di Guglielmo Pazzo, la gente dei Tarlati di Arezzo, i cavalieri delle maggiori famiglie aretine, quelli della Val di Chiana e della Valdambra. Da Siena era venuto Uffredo degli Uffredi, dalle Marche Francesco da Sinigaglia, dalla lontana Tuscia Loccio da Toscanella; e ancora il conte Buatto da Montedoglio, Lancialotto Pugliese, Armaleo da Montenero.
Ancora da Firenze tutti quei membri dei casati di parte ghibellina che, in seguito alle discordie cittadine, erano stati banditi dai Guelfi e approfittavano di ogni occasione che li potesse far tornare in Firenze da vincitori. I nomi di costoro, al solo pronunciarli, suonano alle nostre orecchie ancora familiari: Lapo di messer Marito degli Uberti, Federico di Farinata degli Uberti e Neri Piccolino il Giovane, suo nipote. Nomi desueti per noi moderni, strani per il suono al nostro orecchio che quasi dispiace non poterne ravvisare le facce: Ciante dei Fifanti, i conti da Gangalandi, i Grifoni di Figline, Dante degli Abati e gli Scolari; i figlioli e nipoti di quel Mosca dei Lamberti le cui parole sono diventate un proverbio fiorentino. “Cosa fatta capo ha.”
Questi uomini guidavano sotto le proprie bandiere circa 800 cavalieri provenienti oltre che da Arezzo ed il suo contado da tutta l’Italia centrale, alcuni pare fossero venuti l’anno prima fino dalla Savoia al seguito del vicario imperiale Prinzivalle di Lavagna e altri erano stati arruolati in Romagna, nella Marca di Ancona e nel ducato di Spoleto. Alcuni di loro erano veterani delle guerre di Sicilia tra Angioini e Aragonesi come Lapo di messer Marito degli Uberti, altri della battaglia di Pieve al Toppo e delle innumerevoli scorrerie fatte ogni primavera contro i Fiorentini. Questi cavalieri appartenevano a lignaggi feudali antichi ed essi ne avevano coscienza, vantavano il proprio valore e disprezzavano i loro antagonisti venuti a invadere il Casentino: uomini di città, spesso mercanti e figli di mercanti, ricchi cittadini che si atteggiavano a cavalieri nel costume e che, se pure erano il doppio dei cavalieri Aretini, ai loro occhi non valevano nulla. Giovanni Villani racconta che i cavalieri ghibellini disprezzavano quelli Fiorentini dicendo che “si lisciavano come donne, e pettinavano le zazzere, e gli aveano a schifo e per niente.”
L’esercito ghibellino aveva finalmente raggiunto Bibbiena e quindi Poppi, castelli e paesi fortificati di proprietà degli Ubertini e dei Guidi; è molto probabile che, per il vantaggio guadagnato grazie alla traversata per “male vie” della montagna, l’oste dei guelfi abbia avuto tutto il tempo di schierarsi nella pianura che si estende da Borgo alla Collina e lungo l’Arno, magari inviando grossi reparti di cavalieri e fanti a dare il guasto alle terre circostanti, in attesa dell’arrivo dell’oste ghibellina. Le avanguardie dei due eserciti potevano essere in vista già da qualche giorno ma solo quando il grosso degli Aretini fu arrivato a Poppi i capitani di guerra ghibellini, decisi a rischiare tutto sul campo per non ritrovarsi assediati nei castelli, inviarono il guanto per sfidare a battaglia i Fiorentini.
Il terreno ideale per schierare a battaglia un oste di cavalli e fanti è una pianura, dove i cavalieri potevano caricare senza intoppi e manovrare le proprie schiere intorno alle bandiere dell’oste piantate nel terreno; se poi la pianura aveva alle spalle punti forti come il castello di Poppi o altri luoghi amici, il terreno ideale per una battaglia diventava la piana di Campaldino, altrimenti detta di Certomondo da una chiesa lì fondata dai conti Guidi in ringraziamento per la vittoria di Montaperti. In quella zona l’Arno scorre diritto lasciandosi a sinistra una pianura intersecata da piccoli fossi che allora doveva essere coltivata a biade e grano. All’inizio di giugno fa piuttosto caldo e stanno iniziando i lavori di mietitura dei raccolti, i fiumi sono moderatamente ricchi d’acqua se nella stagione precedente ha ben piovuto, ma quell’anno pare che fosse stato molto secco e dunque la terra era polverosa e i fiumi passabili a guado senza pericolo.
Herbert Oerter, nel suo saggio su Campaldino , afferma che il Vescovo di Arezzo mandò il “gaggio” di sfida il giorno prima della battaglia e questo è verosimile poichè i due eserciti contrapposti avevano bisogno di un certo tempo per prepararsi al combattimento. Vestire le armature, piantare i palvesi in terra, far spianare eventualmente il terreno ai marraioli per le cariche dei cavalieri, assegnare i posti di combattimento ai reparti non erano mai azioni improvvisate o lasciate al caso: la fanteria di un esercito medievale non era addestrata alla manovra e, per quanto riguarda i cavalieri, l’individualità delle persone, il coraggio fisico dei singoli, la paura e le motivazioni a combattere potevano variare moltissimo a seconda dei personaggi.
I Fiorentini furono contenti della sfida ricevuta e accettarono battaglia. Guillaume di Durfort, il giovane Aimeric di Narbonne e il consiglio dei capitani di guerra Fiorentini tra cui erano Vieri dei Cerchi, Bindo degli Adimari e Barone dei Mangiadori, innanzitutto dovevano decidere che tattica seguire e dunque scegliere lo schieramento conseguente, nominare quindi i comandanti delle varie schiere e dare gli ordini ai cavalieri che portavano le insegne; i gonfalonieri dei vari reparti sarebbero poi stati aiutati dai loro consiglieri e distringitori a guidare in battaglia i reparti loro affidati. Niente meglio del discorso di messer Barone de’ Mangiadori rende l’idea di come l’oste dei Guelfi si preparò alla battaglia:
“Signori, le guerre di Toscana si soglìano vincere per bene assalire; e non duravano, e pochi uomini vi moriano, che non era in uso l’ucciderli. Ora è mutato modo, e vinconsi per stare bene fermi. Il perché io vi consiglio, che voi siate forti, e lasciateli assalire”.
Così, deciso di assumere una posizione difensiva e nominati i comandanti delle schiere, i Capitani di Guerra passarono a scegliere i feditori, quei cavalieri cioè che dovevano stare in prima fila e reggere l’urto della prima carica nemica. Secondo la tradizione delle cose fiorentine, e soprattutto grazie alla penna del Padre Ildefonso di San Luigi, ci è stato tramandato l’elenco di quei feditori che si crede parteciparono alla battaglia di Montecatini del 1315: erano da 20 a 30 per sestiere, simili a una delle squadre di cavalcatori descritte nel Libro di Montaperti, con i membri delle stesse famiglie riuniti a “poste” di 5 cavalieri. Cinque di queste poste formavano la squadra che ogni Sestiere cittadino dava alla schiera dei feditori.
Giovanni Villani narra che, a Campaldino, Vieri dei Cerchi fu incaricato, come capitano dell’esercito per il suo sestiere, di scegliere tra i cavalieri a lui sottoposti chi fossero coloro che dovessero far parte dei feditori di Porte a San Piero. Da quanto traspare dalle scarne righe del maggior cronista fiorentino, sembra di capire che l’onore di attaccare battaglia in prima linea non fosse dei più ambiti dai giovani cavalieri Fiorentini; ed il Villani infatti sottolinea come il vecchio Vieri, “benchè malato di sua gamba”, cercasse in qualche modo di dare l’esempio scegliendo la sua persona, il figliolo e altri nipoti e parenti come feditori per il sestiere cui apparteneva e cioè Porta San Piero.
E’ bello immaginare a questo punto, per riprendere il tono romantico del secolo passato, l’accorrere generoso degli altri cavalieri Fiorentini; i più considerati potenti di ogni Sesto, senz’altro meravigliati dalla vitalità di quel Vieri di Torrigiano de’ Cerchi e allo stesso tempo preoccupati di sfigurare davanti all’esempio del vegliardo gottoso che chiede di mettere la sua persona con orgoglio nella prima schiera, circondato soltanto dalla sua schiatta di figlioli, nipoti e clienti.
Ogni comandante di schiera ricevette così un ordine preciso accompagnato, nel caso, da minacce deterrenti: a Corso Donati fu affidato il comando della riserva e dato l’ordine di attaccare il nemico di fianco solo in caso di pericolo ma, conoscendo i Fiorentini il carattere dell’uomo: “uno cavaliere della somiglianza di Catellina romano, ma più crudele di lui”, a messer Corso fu minacciato il taglio della testa se avesse disobbedito agli ordini. Il suo reparto era composto da circa 150 cavalieri di Pistoia comandati dal parmense Tommaso di Pavarano, cui si aggiungevano altri assoldati provenienti da Lucca e un certo numero di fanti. Il “Barone” fu così obbligato a restare in disparte nella prima fase della battaglia, cosa questa che avrà contribuito a scaldare ulteriormente il sangue di quell’uomo focoso e “di corpo bellissimo”.
I capitani di guerra fecero schierare tiratori e palvesari a difesa dei feditori, facendo assumere all’oste una formazione a mezza luna, “con amendue i corni destro e sinistro secondo gli antichi” . Il resto dell’oste si dispose su tre schiere successive di cavalieri, ognuna seguita dai propri fanti serrati e con tutte le bestie da soma in retroguardia, come a fare una barricata in mezzo al campo che potesse servire da ultimo riparo.
L’oste era pronto a ricevere l’urto dei cavalieri ghibellini e gli uomini in campo avranno cominciato a urlare tutti insieme le grida di guerra, per farsi coraggio e caricare gli animi al combattimento.
E come venne buon mattino, al sorgere del sole, i capitani di guerra ghibellini si ordinarono a battaglia facendo del loro esercito quattro schiere: nella prima misero trecento cavalieri, nella seconda trecentocinquanta e nella terza le insegne di Guglielmino degli Ubertini a capo di tutta la fanteria. Ultimi posero in riserva centocinquanta cavalieri sotto le insegne del conte Guido, podestà di Arezzo. Dei trecento feditori della prima schiera ne scelsero poi uno per ogni squadra di 25 e li chiamarono i dodici paladini , affinchè assalissero con tutta la loro forza le bandiere principali del nemico. Il Vescovo affidò poi tutto l’esercito a “San Donato cavaliere”, in onore del santo protettore di Arezzo e in lui certo confidava la moltitudine dei credenti raccolta sotto la sua immagine.
Un luogo letterario: “Terribile come un esercito schierato a battaglia”: uomini e cavalli fermi nella pianura, i cavalieri a capo delle schiere identificati dalle bandiere levate, mentre le bestie nitriscono e scalpitano tenute a freno dai morsi e si sentono le grida degli uomini che si incitano l’un l’altro alla battaglia. L’oste dei Fiorentini doveva apparire come una muraglia urlante di scudi, irta di lance e di stendardi. Il Vescovo Guglielmino degli Ubertini, quel terribile vecchio di settanta anni “che avea corta vista”, allora domandò: “Quelle, che mura sono?” Fugli risposto: “I palvesi de’ nimici”.
Benvenuto dei Rambaldi, commentatore della Divina Commedia, racconta a questo punto che Guglielmino degli Ubertini mandò in ricognizione il giovane Bonconte verso lo schieramento nemico e che questi tornò presto indietro riferendo al Vescovo che non era il caso di attaccare battaglia, essendo i Fiorentini due volte superiori di numero. Il Vescovo allora insinuò che Bonconte era indegno di essere un Montefeltro se non aveva il coraggio di attaccare. Bonconte rispose che, se il Vescovo lo avessse seguito, nessuno dei due sarebbe tornato indietro.
La storia si accresce di un altro luogo leggendario: secondo Robert Davidsohn, infatti, il valoroso Guglielmo Pazzo aveva scambiato le sue insegne con quelle del Vescovo di Arezzo Guglielmino degli Ubertini che, essendo il comandante dell’esercito, durante il combattimento sarebbe stato sicuramente cercato e assalito con furia da tutti i cavalieri avversari. Lo scambio degli scudi e delle insegne era un gesto ricorrente nelle battaglie di quell’epoca: lo aveva fatto Manfredi a Benevento “per non essere conosciuto per lo re” e, del resto, lo scontro infuriava sempre intorno alle insegne capitane dell’esercito.
E come sempre avviene prima di tutte le grandi battaglie, la leggenda vuole infine che il Vescovo di Arezzo tenesse un discorso alle sue truppe già schierate in ordine di combattimento. Non sappiamo se questo discorso sia stato davvero pronunciato dal Vescovo, sia consentita perciò a questo punto l’inserzione di un luogo leggendario che rende epico Guglielmino degli Ubertini, il passo è di Jacopo Catani:
“Con molta più faconda e generosa maniera” parlò Guglielmino ai suoi Aretini, “il quale dato all’esercito suo il nome glorioso di San Donato, come era uomo oltre alla scienza dell’Armi, versato molto nelle lettere, raccontò l’antica grandezza degli Aretini, pregiandosi questi molto del lor antico valore e nobiltà, passò poi a lodare le nazioni de’ Romagnoli e Marchigiani che erano in sua compagnia come quelli che con fatti e con parole, era molto usato a prendere li animi delle persone, ma soprattutto inalzò al Cielo il titolo che si muovevano a quella guerra per sostenere la parte imperiale.
“Dopo le quali dicerie sentendosi ripercuotere l’aria dalle trombe ed altri strumenti non tardorono l’eserciti andarsi ad incontrare con indicibile ferocia dell’una e dell’altra parte…”
“A spron battuto, veloci come saetta scoccata dall’arco correvano, volavano i feditori Aretini montati sui focosi destrieri ad attaccar la battaglia.”
Al grido di “San Donato cavaliere” la prima schiera ghibellina spronò i cavalli e tutta la prima linea di trecento feditori montati partì alla carica dello schieramento fiorentino; dietro i feditori ghibellini mosse al trotto la schiera grossa degli altri trecentocinquanta cavalieri Aretini. Le masnade di fanteria dei Grandi Ghibellini seguivano correndo i propri signori a cavallo che aumentarono di velocità, scartando il passo dal trotto in carica. L’attacco dei feditori Aretini fu “a sproni battuti” e la forza della carica crebbe con la velocità cui i cavalieri si avvicinavano alle linee guelfe: i cavalieri Aretini si sentivano prodi, bene armati e protetti, in grado di reggere ai colpi di freccia, e certi di poter rompere e mettere in rotta i Fiorentini al primo scontro.
I feditori Fiorentini mossero anch’essi preparandosi all’urto contro quella massa di uomini a cavallo che stava puntando dritto contro di loro, i distringitori serravano da dietro le schiere intimando l’allineamento ai cavalieri e, presto, tutti gli uomini capitanati da Vieri dei Cerchi si scontrarono alla lancia contro i feditori ghibellini del prode Bonconte da Montefeltro.
La forza della carica aretina fu tanta e tale che la maggior parte dei feditori Fiorentini fu scavallata dall’urto delle lance sugli scudi e tutta la prima schiera della cavalleria guelfa dovette arretrare sul campo combattendo, cercando di contrastare la furia avversaria. L’impeto dei feditori Aretini fu così forte che riuscirono a incunearsi nel mezzo della schiera guelfa, facendola arretrare ancora: a molti cavalieri Fiorentini i cavalli crollarono morti sotto le gambe ma gli uomini seguitarono a battersi: i cavalieri ghibellini, stroncate le lance al primo scontro, misero mano a mazze, spade e asce per ferire i nemici.
“La battaglia fu molto aspra e dura”
I feditori ghibellini avanzavano combattendo e lo scontro prese a frantumarsi in duelli tra gruppi di cavalieri, i paladini della parte Imperiale si accanivano contro ciò che restava dei feditori Fiorentini non ancora scavallati. I cavalieri Fiorentini si battevano con coraggio per il gran numero dei guelfi che sapevano saldi dietro le spalle e per il valore di alcuni dei loro:
“Molto bene provò messer Vieri de’ Cerchi et uno suo figliolo cavaliere alla costa di sè.”
Intorno al vecchio Vieri si battevano alla spada e alla mazza i due fratelli Giano e Taldo Della Bella, Stoldo Frescobaldi e Guelfo Cavalcanti, la gente dei Nerli, quelli dei Gherardini e degli Scali, tra cui forse quel messer Manetto dai “cavalli coverti” cui piaceva “esser tenuto sì grande e temuto”. Fu in questa fase della battaglia che, facilmente, caddero feriti a morte i Fiorentini Ticcio dei Visdomini e l’orbo veterano Bindo del Baschiera Tosinghi. Il grosso dell’esercito ghibellino era impegnato in combattimento, feditori e schiera grossa di cavalleria, circa 650 cavalieri, stavano battendosi in mischia contro un numero superiore di cavalieri Fiorentini e alleati; i palvesari dei guelfi schierati ai fianchi si stringevano ai pali degli scudi e i fanti con le lance lunghe serravano i loro legni, proteggendo il tiro incrociato dei balestrieri che miravano i cavalieri ghibellini; il tiro aretino era scarso e non contrastava abbastanza quello fiorentino. La fanteria aretina correva per il campo cercando di tenere dietro alla carica dei cavalieri.
“L’aria era coperta di nuvoli, la polvere era grandissima.”
Lo schieramento guelfo stava reggendo all’urto ghibellino, le due schiere dei cavalieri Fiorentini erano già rinculate parecchio verso le salmerie ammassate a fare muro quando le ali di fanteria, spronate dagli urli dei loro gonfalonieri, cominciarono la manovra a tenaglia per chiudersi intorno ai cavalieri ghibellini, aiutate dal tiro dei balestrieri che scaricavano quadrelli e verrettoni. La mischia dei cavalieri infuriava al centro ma la forza della carica ghibellina si stava spengendo contro la massa dei cavalieri guelfi asserragliati davanti alle salmerie.
Molti reparti di cavalleria fiorentina erano ancora immobili, Talano degli Adimari e gli altri fiorentini di cavallata posti vicino ai carri stavano aspettando forse che si quietasse la mischia oppure rispettavano alla lettera la consegna di restare fermi. I cavalieri Fiorentini di prima schiera che erano stati disordinati dalla carica, riuscirono a rientrare al coperto dietro le fila delle salmerie per riordinarsi. Le ali dello schieramento di fanterie fiorentine, “i due corni al modo degli antichi”, serravano verso la cavalleria nemica impegnata nella mischia: i balestrieri seguitavano a scaricare i loro quadrelli da distanza sempre più ravvicinata e il tiro feriva cavalli e cavalieri, forse senza fare distinzione tra amici e nemici; l’assalto lanciato dai cavalieri ghibellini era bloccato al centro dal grosso della cavalleria guelfa, fiorentina e alleata; sui fianchi era tormentato dal tiro dei balestrieri e dalle lance che sbucavano dalle mura mobili dei palvesi.
Amerigo di Narbona, Gherardo Ventraia dei Tornaquinci che reggeva la bandiera reale e Guglielmo di Durfort animavano con la loro presenza il centro dello schieramento e, forse, guidarono la controcarica della schiera grossa buttandosi nella mischia; nel monumento dedicato al nobile Guilielmus de Durforte si vede ancora quel cavaliere mentre cavalca levando la spada, così come apparve quel giorno al fianco di Amerigo di Narbona. La battaglia non era ancora decisa, i cavalieri ghibellini ancora in forze dovettero avventarsi contro la bandiera tenuta da Gherardo Ventraia quando il “balio del capitano” fu colpito da un quadrello e cadde al fianco del suo giovane protetto che fu anch’egli ferito al volto.
Corso Donati allora, il “cavaliere della somiglianza di Catellina romano, ma più crudele di lui,” che aveva ordine di non attaccare sotto pena della testa, da uomo valente quale era ordinò la carica alla schiera sotto il suo comando con queste parole: “Se noi perdiamo, io voglio morire nella battaglia co’ miei cittadini; e se noi vinciamo, chi vuole vegna a noi a Pistoia per la condannagione “.
I cavalieri di Pistoia, di Lucca, gli assoldati che fino allora erano rimasti fermi sulle staffe a guardare quella mischia furibonda, si lanciarono alla carica giù dalle colline per rovinare sul fianco destro degli Aretini, separando i cavalieri dai fanti e tagliando così in due tronconi l’esercito nemico.
Il sessantenne conte Guido, dalla chiesa di Certomondo, guardava la mischia che infuriava nella piana di Campaldino e probabilmente, da vecchio uomo d’arme e strolago qual’era, considerò che la battaglia era persa. Aveva dietro di se centocinquanta uomini a cavallo, ma non si decideva a dare l’ordine di carica, forse considerò che il suo oroscopo di quel giorno era così infausto che non valeva la pena di tentare la sorte e meno che mai “fedire per costa”, o attaccare di fianco, secondo gli ordini ricevuti dai capitani di guerra prima della battaglia. Raccolse così le sue forze intatte e corse a rifugiarsi nei suoi castelli.
Gli Aretini erano perduti. Le due prime schiere erano circondate ai lati dalla fanteria fiorentina, davanti dalla cavalleria guelfa e dietro dai cavalieri di Corso Donati; i fanti Aretini disorientati dall’oscillare delle bandiere malamente visibili nella polvere, si trovarono all’improvviso di fronte alla cavalleria di Lucca e di Pistoia che cominciò a farne strage. Guglielmino degli Ubertini si erse allora in tutta la sua dignità vescovile e affrontò il nemico da grande cavaliere, i suoi fanti spezzarono le lance e misero mano ai coltelli per buttarsi tra le gambe dei cavalli guelfi e sbudellarli, ma invano. I dodici Paladini di Buonconte da Montefeltro e Guglielmo Pazzo erano stati abbattuti, le schiere di cavalleria disfatte, le insegne cadute, il conte Guido era scappato senza combattere e anche i cavalieri rimasti in sella cominciarono a fuggire, cercando di salvare almeno la vita. Così fu la battaglia diventò una rotta e subito cominciò l’inseguimento dei superstiti che cercavano scampo per la piana.
E in questa battaglia di uomini dalle sembianze di Catellina romano, capitani di guerra e franchi cavalieri, tiranni feudali come Maghinardo detto il Demonio e vescovi che sono più uomini “d’arme che d’onestà di chericìa”; in questo scontro tra schiatte feudali e ricchi mercanti cittadini che si affrontano sotto gli occhi di tutti come cavalieri e temono del suo come mercanti, troviamo alla fine Landino di Nato, il solo uomo “villano” di cui sia giunta a noi memoria.
Landino di Nato era un uomo giovane, forse uno dei fanti del contado di Oltrarno, chiamato dal Comune a servire nell’Esercito come tanti suoi coetanei dei molti popoli e plebati sottoposti a Firenze. Egli partecipò alla battaglia e durante la giornata, quando probabilmente la massa della fanteria fiorentina attaccò la corsa dietro ai propri cavalieri rimbaldanziti che stavano contrattaccando, Landino vide cadere il vessillifero che sventolava la bandiera della Ferza per il Sesto d’Oltrarno; raccolse allora l’insegna dalle mani dell’ignoto bandieraio caduto e riprese a correre insieme ai suoi compagni, che stavano rincorrendo per il campo i ghibellini in fuga . Degli altri soldati, gente che non fosse per i cronisti di allora “uomini di rinomèa”, non è rimasta memoria scritta e quindi possiamo solo immaginare che i loro nomi fossero gli stessi dei padri caduti a Montaperti, e si chiamassero quindi Aldobrandino del Sega, Spinello del Mula, Malsaccone e Cecco dello Sgualza.
I soldati e i fanti dell’esercito fiorentino correvano all’inseguimento del nemico in fuga, i cavalieri per cercare di catturare i cavalieri nemici ancora vivi per poterne poi chiedere alle famiglie grassi riscatti, i fanti per sfogare la tensione fino allora accumulata e cercare di razziare più cose possibili dalla roba lasciata sul campo: chi avesse preso cavalli, armature, scudi, elmi, finimenti, selle, ricche vesti da cavalieri o monili dai caduti, avrebbe poi potuto rivendere ai rigattieri quella preda e ricavare qualche denaro dalla battaglia in cui aveva rischiato la pelle.
L’aria carica di nuvole del pomeriggio si era fatta pesante e il temporale che prometteva dalla mattinata scoppiò furioso sulla piana; le trombe dettero allora il segnale della “ritratta della caccia dietro a’ fuggenti” e i soldati dei fiorentini si fermarono nella pianura occupando le posizioni tenute dai ghibellini e strappando da terra le bandiere conquistate: l’esercito vittorioso si schierò sul campo sotto la pioggia battente. I fiorentini lamentavano la morte di Guglielmo di Durfort ammazzato da un colpo di balestra, Ticcio dei Visdomini e Bindo del Baschiera dei Tosinghi giacevano feriti a morte, lo stesso Amerigo di Narbona pativa per la sua ferita al volto e molti altri cavalieri, smontati, cercavano i propri parenti e amici tra i cadaveri straziati di uomini e cavalli caduti, riconoscendoli dai colori degli stemmi, dalle insegne, dalle vesti decorate e dai cimieri sopra gli elmi che celavano i volti degli uomini uccisi: il grande Guglielmino degli Ubertini fu riconosciuto come vescovo di Arezzo dalla tonsura.
“La novella della detta vittoria venne in Firenze il giorno medesimo, a quella medesima ora ch’ella fu; che dopo mangiare essendo i signori priori iti a dormire e a riposarsi, per la sollicitudine a vegghiare della notte passata, subitamente fu percosso l’uscio della camera con grida: levate suso, che gli Aretini sono sconfitti: e levati, e aperto, non trovarono persona, e i loro famigliari di fuori non ne sentorono nulla, onde fu grande maraviglia e notabile tenuta, che, innanzi che persona venisse dell’oste colla novella; fu ad ora di vespro. E questo fu il vero, ch’io lo udii e vidi, e tutti i Fiorentini s’ammiraro onde ciò fosse venuto, e stavano in sentore. Ma quando giunsono coloro che venieno dell’oste, e rapportarono la novella in Firenze, si fece grande festa e allegrezza…”