I nomi degli Eroi di Campaldino – II parte – M- Giuliani
25 Ottobre 2007I Tormenta
26 Ottobre 2007L’araldica era un linguaggio figurato e simbolico, fatto di colori, simboli, ognuno dei quali stava a significare cose ben precise: un nome, un gruppo familiare, l’appartenenza politica a una parte e via discorrendo. Così di frequente, nell’Italia medievale, adottare l’aquila come simbolo di fedeltà all’Impero e alla casa di Svevia, come i guelfi, avversari dell’Impero e favorevoli alla casa d’Angiò, usarono i gigli d’oro in campo azzurro come pezza araldica da portare sul capo del loro scudo.
L’araldica dei vari gruppi familiari, che abitavano le città italiane, aveva naturalmente una grandissima varietà, anche se certe costanti sono riscontrabili nei vari stemmari cittadini.
L’attribuzione di uno stemma non era cosa che si potesse fare a proprio gusto e piacere: spesso si adottava lo stemma della propria parrocchia, del gruppo familiare cui si era legati o di cui si era clienti. Altre volte lo stemma veniva concesso da una qualche autorità, in quel caso poteva avvenire una sorta di contaminazione tra il simbolo di quell’autorità e i colori dello scudo originario.
Niente di meglio di un esempio storico per spiegare al meglio queste affermazioni.
Nel marzo del 1270, a Firenze, ser Jean de Britaud, cavaliere francese detto dai fiorentini Giambertaldo, lasciò il posto di vicario generale a Guido di Montfort. Costui, che ebbe una parte notevole nella storia fiorentina, era figlio di Simone di Montfort, già duca di Leicester. Nella storia inglese “The Murder of Evesham” ha un nome sinistro e proprio sui campi di Evesham, nel 1265, Guido di Montfort, fu presente alla battaglia che vide suo padre morire sconfitto e, fattosi adulto, riparò in Francia alla corte di Carlo d’Angiò.
Nel 1270 Guido di Montfort diventò così vicario generale di Carlo d’Angiò a Firenze, come stemma Guido portava uno scudo rosso con sopra un leone rampante bianco – in linguaggio araldico: di rosso al leone d’argento. Per chi volesse avere un’idea più precisa del soggetto in questione esiste una ottima illustrazione dalla matita e dal pennello di Angus Mc Bride, pubblicata nel volume Osprey French medieval Armies.
Una volta a Firenze, il nostro assunse il comando delle truppe della Lega Guelfa, una sorta di alleanza militare intraregionale, composta da soldati a cavallo pagati da Carlo d’Angiò, da Firenze e, in quote differenziate a seconda dell’importanza, da varie altre città della Toscana e dell’Italia centrale. Alla testa di queste truppe, integrate da contingenti fiorentini e orvietani, Guido mosse insieme a Berardo di Raiano, podestà di Firenze contro i centri di resistenza ghibellini in Toscana. L’11 maggio 1270 muovevano contro il Valdarno di Sopra, a Piantravigne dei Pazzi, dove fu distrutto il castello di Ristruccioli dei Pazzi, “ch’era molto forte”, secondo il cronista Giovanni Villani. L’oste reduce da Ristruccioli con Guido di Montfort devastò poi la zona di Poggibonsi, dove era un presidio di cavalieri tedeschi e ghibellini che furono sconfitti con la conseguente distruzione del paese.
Seguitando a parlare del personaggio, che ebbe una vita incredibilmente avventurosa, il 10 agosto 1270, a Viterbo, Guido di Montfort sposò Margherita di Aldobrandino di Pitigliano, detto il Conte Rosso. Costui era un feudatario potente nelle maremme a sud di Siena, tra il monte Amiata e il mare, fino al confine con il Lazio odierno. Sua figlia Margherita appare nelle cronache del tempo quasi una sorta di Messalina, ma la storia di Guido continua e l’anno dopo il matrimonio, il 13 marzo 1271, sempre a Viterbo, il nostro cavaliere compie la vendetta della sua stirpe massacrata sui campi di Evesham.
Nella chiesa di San Silvestro, vicino all’altare Guido di Montfort aggredì e uccisa Enrico di Inghilterra; suoi complici nell’assassinio furono il fratel suo Simone e il conte Ildebrandino di Pitigliano, insieme a 300 soldati a cavallo, probabilmente stipendiati dalla lega Guelfa.
Dopo il delitto Guido si rifugiò poi a Montagnoso, castello posto vicino a Montaione in Val d’Evola, qui ospitato da Stoldo Giacoppi dei Rossi, fiorentino irrequieto al quale il cavaliere anglo-francese, in segno di gratitudine, concesse di portare le sue insegne sullo scudo: il leone bianco in campo rosso.
Lo stemma dei Rossi di Firenze era, com’é facile immaginare, tutto dipinto di rosso. Stoldo inquartò l’insegna del Montfort nel suo stemma e da allora i suoi discendenti portarono a Firenze lo stemma rosso con un leone bianco.