I nomi degli Eroi di Campaldino – II parte – M- Giuliani
25 Ottobre 2007I Tormenta
26 Ottobre 2007Il modellista però, seguendo la fascinazione che il Medioevo immancabilmente esercita sul neofita continua a voler dipingere pezzi medievali, li cerca nei negozi, compra dei libri che parlino di Medioevo ed ecco che la passione si dispiega in tutta la sua forza: i pezzi crescono così nella vetrina finché un giorno il nostro modellista non si accontenta più di dipingere leoni leopardati d’Inghilterra o gigli di Francia. Forse, se esistesse qualche pubblicazione sul Medioevo italiano, il nostro modellista potrebbe essere tentato di lanciarsi in qualche trasformazione, attingendo all’incredibile varietà dell’araldica italiana.
Lo scudo oltre a riparare il guerriero in combattimento, era il supporto sul quale ogni cavaliere portava le sue “armi” dipinte. Lo scudo aveva dunque due funzioni, quella naturale di un’arma difensiva e la funzione di identificare il cavaliere che coperto, da capo a piedi, di elmo chiuso, cotta di maglia e protezioni varie, poteva essere identificato da amici e nemici solo grazie ai colori o simboli dipinti sullo scudo
Gli stemmi più antichi, circa tra il Mille e il primo Duecento, erano molto semplici: spesso una coppia di colori. La bicromia bianco-rosso fu caratteristica di Firenze, significante l’immagine della città in armi: i palvesi che celavano le fanterie armate della prima schiera erano bianco o rosso con il giglio dell’uno nell’altro. Una simile bicromia così caratterizzante si ritrovava in altre città toscane dell’epoca: per prima Siena con la sua bicromia in bianco e nero, detta la Balzana bandiera simile alla Bauçan dei Templari, che però restò unica nel resto della regione. Pure a Lucca, Pistoia, Volterra la bicromia era di bianco e di rosso; Pisa apparve con le sue navi nel Mediterraneo issando una bandiera interamente rossa: il vexillum sanguinolentum.
La Toscana dunque, anche in molti stemmi appartenenti a gruppi familiari con grandi possedimenti fondiari, era caratterizzata da questi colori; li si ritrovano infatti in molti stemmi di famiglie “nobili”, come i conti Guidi.
LO SCUDO
Nei Comuni dell’Italia medievale esistevano delle vere e proprie corporazioni artigiane che fabbricavano gli scudi, a Firenze si chiamavano Scudai e Correggiai; gli artigiani che fabbricavano scudi e cinture, infatti, erano uniti nella stessa corporazione, proprio per gli stretti vincoli che si determinavano tra artigiani addetti alla lavorazione del legno e del cuoio.
Lo scudo era costruito in legno, composto da più tavole di legno robusto saldamente connesse tra loro, quindi lo scudo veniva ricoperto di cuoio, spesso una dura pelle d’asino. Sul retro dello scudo era applicata una specie d’imbottitura per permetterne l’imbracciatura, composta da un passante per l’avambraccio e una specie di maniglia, sempre di cuoio. Oltre a questi elementi esisteva una spessa cinghia di cuoio che serviva per appendere lo scudo al corpo del guerriero; la pesantezza dello scudo era tale che il suo peso poteva essere sostenuto solo da questa cinghia, tenendo conto che il cavaliere con la mano sinistra doveva anche impugnare le redini per la guida del cavallo.
Lo scudo era infine dipinto e, nel Medioevo italiano, almeno fino al primo Quattrocento, la pittura era eseguita a tempera. Lo strato di cuoio che rivestiva lo scudo veniva preparato con una base di colla e gesso, mistura che veniva stesa in più mani e poi scartata e lisciata fino ad ottenere una superficie omogenea e liscia al tatto. Quindi l’artista incaricato della pittura procedeva a campire la superficie con più mani di colore a tempera, una volta dipinto il campo si passava poi a disegnare la figura araldica, poniamo un leone. L’artista allora poteva scegliere se eseguire il disegno con una vernice scura oppure creare la figura a rilievo.
IL LEONE
In questo caso, tracciato il disegno, questo veniva riempito di un’altra mistura di gesso e pasta di legno, fino ad ottenere un vero e proprio bassorilievo con la figura desiderata. Una volta terminata la figura occorreva dipingerla con i colori araldici; qui le tecniche potevano essere varie, se il leone doveva essere dorato la tecnica più comune era quella di stendere sulla figura una mano di porporina, una sorta di mescola rossiccio-scura molto diluita che impregnava la figura, quindi l’artista iniziava a dorare il leone, prendendo della vera e propria foglia d’oro che adagiava delicatamente sul leone, premendo con un pennello intriso di vernice. Lo stesso avveniva nel caso dell’argentatura.
Il disegno risentiva dunque della mano dell’artista, ma anche dell’area culturale e geografica: per restare nell’ambito dei leoni un leone di Fiandra é diverso da un leone d’Inghilterra, così come un leone romanico é differente da un leone gotico. Il disegno era sovente schematico, il leone veniva raffigurato il più delle volte rampante, ovvero con una sola zampa posteriore poggiata sul suolo ideale, l’altra levata e le anteriori pure levate con gli artigli, sovente dipinti di un’altro colore. Ogni posizione del leone aveva un significato per cui il nostro animale poteva essere raffigurato rampante, passante, sedente, con la testa in maestà, cioè rivolta frontalmente verso l’osservatore e non disegnata di profilo.
Il risultato finale dipendeva dalla mano e dalla tecnica dell’artista, spesso, ammirando i pochi manufatti che sono giunti a noi, restiamo delusi dall’approssimazione con la quale i pittori di scudi rendevano le figure araldiche. Questo é un elemento importante dell’araldica che un buon modellista non dovrebbe trascurare.
Il disegno araldico, infatti é legato a doppio filo allo stato dell’arte del periodo cui lo scudo appartiene. E’ evidente che non tutti i cavalieri italiani potevano permettersi di affidare il proprio scudo all’arte di Giotto o di un altro pittore professionista della sua epoca. Nella maggior parte dei casi gli scudi erano dipinti dalla rozza mano di un artigiano che, cercava di raffigurare un leone secondo i disegni che aveva nella sua bottega. Per cui spesso si vedono leoni araldici che poco o nulla hanno a che fare con la bellezza di un leone africano, assomigliando piuttosto a gatti con la criniera, animale meno nobile del leone, ma certamente più familiare all’artigiano dipintore, almeno nelle stanze di casa sua.