Lo Scudo ed il Leone – M. Giuliani
25 Ottobre 2007KV 1 Leningrado 1942
26 Ottobre 2007Solo con le guerre puniche Roma entrò in contatto con queste tecnologie, probabilmente avvalendosi delle acquisizioni e dei ritrovati dell’ingegneria greca ed ellenistica. Solo in epoca tardo repubblicana gli stessi romani diedero un contributo alla progettazione di queste macchine. Le prime macchine da getto di cui si hanno notizie complete furono ideate dagli ingegneri di Dionigi il Vecchio di Siracusa agli inizi del IV sec. a.C. Il gruppo più importante di queste armi comprendeva armi in grado di lanciare dardi o pietre. Schematicamente la catapulta era costituita da un arco fissato ad un affusto su cui scorreva una slitta, scanalata nel mezzo per alloggiare il dardo, munita di un dispositivo di aggancio e scatto che agiva sulla corda dell’arco, e collegata ad un verricello dell’affusto per ritirarla indietro e bloccarla. L’affusto era bloccato ad un supporto mediante un giunto universale per consentire la regolazione dell’alzo del tiro. Per lanciare pietre era sufficiente montare una slitta con guida a sezione emisferica, di diametro opportuno che trasmetteva l’impulso al proiettile. Qualità comune di tutte le catapulte era l’estrema precisione, sperimentata anche attraverso la ricostruzione in epoca recente di modelli.
Per lungo tempo la tecnologia sfruttò il principio della flessione dei bracci dell’arco, con l’utilizzo di materiale sempre più resistenti. Ma quando i romani cominciarono ad utilizzare queste armi, collaudarono tecniche sempre più redditizie che sfruttavano il principio della torsione; donde il loro nome di tormenta (da torquere) I bracci erano inseriti in fasci di fibre (crini, capelli, tendini di animali), alloggiati in cilindri perpendicolari all’affusto, e qui sottoposti a potenti meccanismi di torsione, la cui forza si scaricava sui bracci quando la corda era liberata.
In epoca ellenistica tali tipi di armi avevano un utilizzo con effetti devastanti nella marina: una nave in fase di attacco aveva la fiancata della nave avversaria completamente a disposizione su tutta la lunghezza di tiro delle catapulte. L’effetto dei colpi poteva essere decisivo: un dardo riusciva a trafiggere numerosi marinai rompendo la sincronia del remaggio. Ma anche le artiglierie navali decaddero, insieme alla marina, quando Roma ebbe il controllo del Mediterraneo e si disinteressò della guerra marina.
Dalla media repubblica al basso impero Roma dotò le sue forze armate di numerosi tipi di armi da getto, sostituendo in certa misura con parti metalliche le pesanti strutture in legno: ciò permetteva di alleggerire il peso delle armi, senza modificare la potenza di lancio e in tal modo si diede particolare sviluppo alle armi mobili da campagna, montate su ruote, e sia quelle fisse, da postazione. Queste ultime crebbero di importanza a partire dal medio principato, quando fu evidente la loro utilità nella difesa dei campi fortificati e delle barriere limitanee, a supporto delle esigue forse di presidio insediate.
Le fonti usano vari nomi per indicare le artiglierie: catapulta, scorpio, ballista, carroballista, onager sono i termini che ricorrono più spesso, ma il significato di ciascuno di essi non è il medesimo in tutti gli autori delle diverse epoche, perciò la loro interpretazione non è univoca tra gli studiosi. Con esclusione della prima, le altre tre si caratterizzavano per essere armi da lancio a torsione. Erano di modello e dimensione varie, e potevano lanciare sia dardi che sassi: risultavano essere estremamente precise, richiedendo un’accurata procedura di puntamento, azionato da personale altamente specializzato, fornito di adeguate conoscenze tecniche. Non avendo i romani corpi specializzati di artiglieria, si deve presumere che nelle unità del loro esercito, gli addetti alle macchine costituissero una categoria di militari distinti per i requisiti posseduti e, probabilmente, privilegi nel trattamento (immunes, esonerati dai lavori pesanti). Lo scorpio descritto da Vitruvio lanciava un dardo di 70 cm. e la distanza dipendeva dall’alzo dell’arma che era vario e regolabile (comunque fino a 300 metri e oltre).
Con la parola onager si fa riferimento invece ad un tipo di macchine che potremmo definire a tiro curvo, concepite esclusivamente per il lancio di pietre. L’onager era munito di un unico grande braccio in legno, con un’estremità a cucchiaio (oppure reggente una tasca di cuoio) per contenere il proiettile e l’altra estremità inserita nell’affusto mediante un perno di rotazione. Meccanismi di tensione si caricavano sul braccio teso all’indietro: lo sblocco liberava il braccio, che lanciava in traiettoria la pietra prima di abbattersi su uno schermo di contraccolpo, rivestito di materiali atti a smorzare l’impatto. Il tiro non poteva risultare molto preciso, ma l’onager era comunque una macchina di elevata potenza e di funzionamento semplice; la sua importanza crebbe nel tardo periodo imperiale con il progressivo scadimento della qualità delle truppe arruolate e la difficoltà nel reperire personale specializzato. Va notato che dopo il 300 d.C. gli uomini inquadrati come artiglieri (ballistarii) vennero designati come una speciale unità di artiglieria.
Secondo Vegezio ogni centuria avrebbe avuto in dotazione una carrobalista e ogni coorte un onagro: bisogna considerare dubbia questa informazione che comunque va riferita al contesto militare del IV sec. d.C. L’onager rappresentava la più grande catapulta da assedio e come la ballista era costruita in varie dimensioni. Era chiamata onager (asini selvatici, giacché come questi “scalciavano”) o tormentum per la torsione alla quale erano sottoposti i bracci di carico. Pesava dalle due alle sei tonnellate a seconda delle pietre che lanciava. Per le difficoltà di trasporto veniva smontato, trasportato e poi rimontato sul luogo. Rappresentava quindi, come detto, un’arma da assedio e non da operazioni sul campo. Poteva lanciare una pietra di 30 kg. alla distanza di 400/450 metri.
Molte altre erano comunque le armi utilizzate dai romani, soprattutto di dimensioni più ridotte: gastrophetes, manuballistae, arcuballistae.